La classe dirigente italiana va prendendo le misure al nuovo, giovane, premier Renzi e, nel farlo, offre precisa misura di se stessa, delle sue difficoltà e resistenze davanti al mondo globale. Già l’età del premier rende difficile la lettura delle sue mosse ad uomini (molti) e donne (poche) che potrebbero essergli padri o madri – in qualche caso nonni. 

Quando Renzi, con un atto che tanti suoi predecessori avrebbero potuto, e dovuto, approvare, inizia a togliere il segreto sui misteri italiani, non si tratta solo di opportuna dose di trasparenza, è che davvero a Renzi la strage di Piazza Fontana 1969, l’assassinio di Aldo Moro 1978, appaiono «Storia», i loro protagonisti, terroristi o eroi, le loro idee, speranze, orrori, lontani. Può agire con distacco. 

Nel decidere come comportarsi davanti all’energia, a volte turbolenta, che Renzi innesca a Palazzo Chigi, la nostra «ruling class» deve darsi un nuovo paradigma, dopo quello che ha guidato la filosofia di banchieri, managers, imprenditori, sindacalisti, finanzieri, accademici, media, istituzioni, grand commis, nei 20 anni di egemonia Berlusconi. Il patto, non scritto ma evidente, è stato a lungo un apparente distacco – ricordate il balzo sul palcoscenico con cui Berlusconi riafferma la sua identità al meeting Confindustria Vicenza 2006?- da Forza Italia, spesso distillato in una felpata presa di distanza di «stile», nei «modi». Senza però arrivare a una vera contestazione, perché mai, al momento decisivo, né Berlusconi, né i suoi interlocutori, hanno voluto violare lo status quo profondo, il meccanismo di selezione dei quadri, il comfort dei salotti dove si siglano contratti a reciproco vantaggio, i rapporti fiduciari con intellettuali e analisti. Lo status quo è stato il partito di maggioranza per venti anni, e l’innovazione – elogiata nei discorsi di cerimonia - combattuta con foga radicale. Quale «leader della società civile» ha reclamato riforme a voce alta e in modo convincente? 

Renzi piace oggi alla classe dirigente, spaventata dalla cronica incapacità del centrodestra di darsi un nuovo leader: ai vertici internazionali 1994 Berlusconi aveva accanto Clinton, Kohl, Mitterrand, Major, Eltsin, nomi di defunti o ormai lontani dalla politica militante. Quando la destra incoronerà il successore del leader di Forza Italia, vedremo cosa accadrà. Per ora c’è Renzi o, in alternativa, il populismo acre di Beppe Grillo e dei M5S. I quadri dirigenti italiani hanno nel Dna una sperimentata capacità di interlocuzione con la piazza, dal 1919 al 1922, e poi dal 1968 ai primi Anni Settanta. La figura della «Casta», lanciata come meritoria campagna anticorruzione dai giornalisti Stella e Rizzo, è stata stravolta con astuzia in maschera che carica tutte le colpe ai famigerati «politici», assolvendo dalle loro i vertici della società civile. 

Matteo Renzi apre dunque, e in questo è a sorpresa alleato di Grillo, un paradosso strategico nella Repubblica: dopo 20 anni di Berlusconi e 10 di campagna Anti-Casta, la politica sembra rinnovarsi prima, e più radicalmente, della classe dirigente che la circonda. Finanza, aziende, media, istituzioni, accademia non hanno conosciuto «rottamazione», volontaria o imposta, la politica riprende un metro di vantaggio, più giovane, più irruenta, più disposta a fare saltare il tavolo se necessario. 

Nella partita delle nomine, Renzi ha mostrato realismo, prendendo atto che una classe dirigente non si cambia con una rasoiata: fu questa la grande illusione seguita a Mani Pulite nei primi Anni 90, l’idea un po’ giacobina che con Dc, Pci, Psi, manager inquisiti, dovesse cadere un’intera società di quadri, con le sue culture, pregi, difetti. La fola animò sinistra, giornali, intellettuali, titillò molti mandarini e portò al potere, a passo di carica, Forza Italia. 

Renzi mostra di volere agire nel presente, sentendo «a pancia» gli italiani, anche con la dote dell’azzardo, consapevole che, fuori e dentro il suo partito, tanti attendono un passo falso per toglierselo di torno. Quest’alea lascia tanti vip cauti, alla finestra, mandando segnali di consenso al «nuovo» di Renzi, ma con la prudenza manzoniana che, in caso di guai, permette rapide inversioni ad U. 

È interesse del Paese, mentre la crisi profondissima non accenna in alcun modo a risolversi, che la prima, elementare, riforma della politica e dei suoi protagonisti, rinvigorisca l’intera classe dirigente. Non si tratta di anagrafe, né Reagan, né Thatcher, né Kohl erano «giovani» quando presero le loro strategiche decisioni. Si tratta di guardare al futuro e non al passato, di vedere nell’innovazione un alleato non un nemico, nel mondo e nelle sue vicende opportunità, non costante minaccia ai propri privilegi. 

Lo status quo accentuerà il declino italiano fino alla rovinosa picchiata. Ogni spinta contraria è positiva e va sostenuta, e perfino tra gli elettori di Grillo, se non ancora purtroppo nel suo gruppo parlamentare, ci sono milioni di elettori che chiedono legittimamente trasparenza, onestà, una dinamica sociale che permetta a chi è escluso da parentele, amicizie e camarille di far carriera per merito, da «sconosciuto». 

La politica, con affanno e disordine, accenna a ripartire. È bene che l’Altra Italia dei vertici accetti la sfida e si riformi. Il tempo che rimane non è poco, ma pochissimo, quasi nulla.