Filosofo, padre della semiotica, scrittore, docente universitario, giornalista, corsivista felice, esperto di libri antichi: in ciascuna delle sue anime Umberto Eco, scomparso ieri a 84 anni, era una stella internazionale. Ma con i suoi studenti, i lettori, i colleghi, mai Umberto Eco prendeva pose snob che i best seller mondiali, dal «Nome della Rosa» al «Pendolo di Foucault», avrebbero imposto ad altri scrittori, rideva, si informava delle novità, e –accendendo una sigaretta- raccontava l’ultima barzelletta, prima di presentare una nuova teoria linguistica.

Poliglotta, erudito alla perfezione, dalla tesi di laurea sull’estetica di San Tommaso alla lunga milizia giornalistica, sull’Espresso, dove, inviato in America Latina aveva confessato di essere stato «a mezzo passo» dalla love story con una militante, al Manifesto, dove firmava pezzi polemici anche a sinistra, per esempio contro Pasolini, con lo pseudonimo di Dedalus, al Corriere di Ottone, alla Repubblica, Eco ha rivoltato il costume culturale italiano, imponendo agli standard accademici antichi una originalità culturale rivoluzionaria.  

Raccontava, senza astio, di essere andato in cattedra molto dopo i suoi coetanei, «perché non facevo gli auguri ai baroni», ma era il suo trattare la cultura «alta o bassa» con la stessa appassionata dedizione a renderlo sospetto agli snob italiani. Che un semiologo, un critico letterario, un filosofo si occupasse di fumetti –era stato tra gli animatori di Linus con Oreste Del Buono-, che un docente predicasse «per capire la cultura di massa dovete amarla, non potete scrivere un saggio sul flipper se non avete giocato a flipper» stuccava i nipotini di Croce. Per i prossimi due giorni leggerete solo articoli in cui tutti daranno del Maestro a Umberto Eco, ma da vivo faticò per affermarsi nell’accademia e molti campioni del passato, Pietro Citati per esempio, lo attaccarono senza complimenti. Il suo manuale «Come si fa una tesi di laurea» spiegava che a scrivere si impara, non è opera da geni pazzi, ma raccomandava ai laureandi di diventare specialisti della propria materia, «la vostra tesi deve essere la numero uno!».

Lui non se ne curava troppo, era pieno di allegria, raccontava aneddoti riproducendo gli accenti e i dialetti, da quando giovanissimo era andato alla Rai dei pionieri, col musicista Berio, con Furio Colombo, ammettendo un lungo flirt con la conduttrice Enza Sampò, ma sempre negando di avere scritto le domande per Lascia e Raddoppia di Mike Bongiorno, «Riotta tu ami le leggende urbane» sogghignava. 

Con «Opera aperta» del 1962 e «Apocalittici e integrati» del 1964 Eco schiude un nuovo modo di fare filosofia e critica, utilizzando stili e metodi colti con materiali della vita quotidiana, dimostrando all’Italia che usciva dal boom economico e si apprestava a dividersi con il 1968, come si dovesse fare cultura nel mondo moderno. Il rapporto di Eco con gli studenti fu complesso, ne appoggiò il movimento, prese parte con il mensile Alfabeta alla battaglia culturale del tempo, ma prima di molti altri si rese conto che l’avanguardia del Gruppo 63, che aveva fondato, e la nuova sinistra con cui aveva tanto discusso, si stavano ripiegando su se stesse. E quando il terrorismo lacerò l’Italia Eco ammonì, in aula e fuori, che la cultura non è violenza. Aveva invitato a frequentare i Comitati di quartiere, «oggi Rastignac, l’eroe di Balzac andrebbe lì», ma insisteva nel fare studiare la cultura di destra, dal fumettista Chester Gould al poeta Ezra Pound, «o non capirete nulla».  

Allineare ora le date del suo lavoro lascia increduli, nel 1975 pubblica per Bompiani, la sua casa editrice, «Manuale di semiotica», a lungo il testo chiave della disciplina, e già nel 1980 è il tempo de «Il nome della rosa», un romanzo che fu adottato all’Accademia militare di West Point come libro di testo, vivisezionato dagli strutturalisti per decenni, ma letto in metropolitana da gente semplice come un giallo appassionante.

Il corto circuito Alto-Basso era la vita di Eco, e nell’ultima intervista che gli feci per questo giornale, riconobbe «Il nome della rosa fu ispirato dal terrorismo, dagli anni terribile che vivevamo. Avevo in mente la morte di Mara Cagol, la fondatrice delle Brigate Rosse, la violenza settaria» e le gesta di Guglielmo di Baskerville sono inno, amaro e preoccupato, contro l’intolleranza, l’odio, l’ignoranza.

Gentile, generoso, affabile, Eco rifiutò le cattedre che l’America gli offriva scherzando, «non posso mica vivere in un paese in cui non si fuma né si beve un caffè», in realtà perché legato all’Italia, la Alessandria in cui era nato e di cui parlava il dialetto, Milano che amava con la sua casa biblioteca al Castello, gli amici, la famiglia, la moglie Renate e i due figli, Stefano e Carlotta. «Ora –diceva- faccio il nonno e di libri discuto con i nipotini, spiegando a Stefano che si può regalare un fucile giocattolo, il gioco è cultura no?».