Chase Millsap non è un blogger pacifista che twitta contro il presidente Trump. È un ex ufficiale dei marines e dei commandos Berretti Verdi. Nel 2006, sotto il fuoco di cecchini in Iraq, è stato salvato dal coraggio di un ufficiale iracheno, poi preso di mira, con la famiglia, dai terroristi. «Mi ha salvato la vita, da anni provo a fargli avere il visto per gli Usa, salvandolo dalle rappresaglie. Il decreto di Trump lo abbandona».

 Come il compagno d’armi di Millsap, decine di migliaia di sfortunati che hanno collaborato con gli americani in guerra e pagano per la loro lealtà, non possono da venerdì entrare negli Usa. Il presidente ha escluso con il suo nuovo decreto i cittadini di Iraq, Iran, Siria, Yemen, Sudan, Libia e Somalia, come misura anti-terrorismo. Si tratta di un gesto arbitrario e frettoloso, che ha già ieri fermato persone e famiglie tra New York e San Francisco, malgrado avessero visti regolari di ingresso, o addirittura «carte verdi», permessi di residenza. Gli avvocati non riescono a parlare con i loro clienti, e un doganiere alla richiesta disperata «Ma a chi dobbiamo rivolgerci?» ha risposto, con amara consapevolezza politica o cinismo, «Al Presidente. A Trump». 

Esiste una corsia alternativa, altrettanto severa, lo Special Immigrant Visa. Erano in 14.000 ad attendere questo visto, la strada è tortuosa, esame capillare da parte di varie agenzie federali Usa, lettera di pugno dell’ufficiale Usa nel cui reparto hanno lavorato, prove definitive che il soggetto abbia militato con le forze armate e sia a rischio. Un altro ex capitano, Matt Zeller, sconvolto per il rimorso di tradire leali commilitoni, ha formato il gruppo No One Left Behind, provando a persuadere, invano, l’amministrazione Trump.  

Ieri, dalla premio Nobel per la pace pachistana Malala Yousafzai all’amministratore delegato di Alphabet Google Sundai Pichai, indiano, tanti hanno protestato contro la decisione di Trump. Pichai ha invitato i cento dipendenti Google passibili di controlli e in viaggio a rientrare subito in America, ma centinaia di aziende, uffici, famiglie sono in ansia e migliaia di persone incerte, bloccate lontano da casa. 

L’America è Paese di immigrati, compresa la famiglia Trump, arrivata da Germania e Scozia, e le ondate xenofobe sono antiche. A lungo le università d’élite, Ivy League, avevano quote per escludere gli ebrei, negli Anni 50 a New York si esponevano cartelli «Non assumiamo negri o italiani» e il giovane avvocato Mario Cuomo, futuro governatore, non trovò lavoro a Wall Street perché non volle cambiar nome, polacchi e irlandesi venivano discriminati, il Chinese Exclusion Act del 1882, firmato dal presidente Arthur, chiuse le frontiere ai cinesi e rimase in vigore fino al 1943. 

 Trump sa che i terroristi dell’11 settembre erano organizzati da sauditi, Paese alleato fuori dalla lista nera, e che un profugo siriano entra negli Usa solo se davvero perbene. Ma il suo decreto non ha a cuore i cristiani, come dice, né la sicurezza nazionale, dovere cruciale di un presidente. Sa di aver vinto grazie a un’America polarizzata e impaurita e vuole ancora dividere e seminare diffidenza. Purtroppo non aumenta la sicurezza, isola il grande Paese della libertà dal mondo. Dal suo rifugio segreto in Turchia, l’ufficiale iracheno che salvò Millsap lamenta «non riesco a dormire, spero solo nei miei fratelli, i marines».