Alla vecchia biblioteca della Scuola di Giornalismo di Columbia University, un omino custodiva in cassetti di legno, milioni di ritagli di giornale ingialliti dal tempo, giorno dopo giorno, la storia di New York. Lì, religiosamente ripiegato e datato 27 settembre 1981, avreste trovato la meravigliosa lettera al New York Times di un signore, che ricorda un pomeriggio di pioggia dell’autunno 1944, al bar Costello, sulla III Avenue. Hemingway, tornato dalle cronache dello sbarco in Normadia, si ubriaca con lo scrittore John O’Hara. Il futuro premio Nobel propone a O’Hara, per scommessa, di spezzargli sulla testa un nodoso bastone di pruno che il barista tiene sul bancone. Brillo O’Hara accetta, Hemingway si sbraccia, il legno si piega, Hanson e lo scrittore McNulty, che al Costello dedicherà mille pagine, tifano, il barista offre a tutti un drink.

L’episodio http://goo.gl/VbQnBl è classico di una New York che portava il cappello, beveva tre Martini cocktail a lunch, si sporcava le dita con l’inchiostro, faceva a botte per le donne e la politica, credeva in un domani migliore, o almeno era disposta a battersi per sognarlo. Ritrovate questa New York perduta in un libro, raro e prezioso, che riappare ora in Italia “Un irlandese in America. La New York di Brendan Behan”, grazie alla raffinata casa editrice 66th at 2nd, che prende il nome da un indirizzo non lontano dal vecchio Costello.

Behan, nato nel 1923 a Dublino e morto a 41 anni, roso dall’alcolismo, era stato da ragazzo un repubblicano militante irlandese, sbattuto in riformatorio e in galera per storie di esplosivi e poliziotti feriti, finché una provvida amnistia non lo spedisce a Parigi verso una carriera di libri, come il romanzo autobiografico ”Ragazzo del Borstal”, tradotto nel 1960 da un altro “maledetto”, Luciano Bianciardi, e spettacoli teatrali di successo. In politica odierà sempre Londra, “brucia tutto ciò che è inglese, tranne il carbone” gli insegna la mamma, ma quando sbarca a New York il 18 settembre del 1960 è amore a prima vista tra il grintoso scrittore e la città insonne. Annota il New York Times di quei giorni “A New York tutti sanno ormai dell’arrivo…di un licenzioso, iconoclastico, ex-rivoluzionario dell’Ira, ballerino di giga, cantante di ballate irlandesi, tarchiato, sgualcito, arruffato, trentasettenne drammaturgo di Dublino di nome Brendan Behan. Raggiunto dai reporter al suo arrivo in aeroporto, accompagnato alla suite dell’Hotel Algonquin, inseguito nei bar della Terza Avenue e nei suoi vagabondaggi lungo le vie di New York, Mr. Behan non ha mai smesso di parlare dal momento in cui è sceso dall’aereo…”. Né smetterà, litigando con i compatrioti alla sfilata di San Patrizio di Manhattan, ma marciando felice in New Jersey, finendo cacciato dall’hotel Algonquin per ubriachezza molesta, dove era però grande amico del portiere Mike Lions, che ricorda “Arrivava con tutti gli amici alle quattro del mattino, aveva bevuto tanto che lo portavano su di peso, e se era solo, toccava a me”.

A New York Behan arriva sobrio, ha capito che l’alcolismo lo sta uccidendo, preferisce caffe o te. Incontra gli scrittori celebri, Wilder e Hemingway, ma porta da P.J. Clarke’s, un bar che serve hamburger, ancora adesso affollato il sabato sera, i novellini affamati, Mailer, Kerouac, il poeta beat Ginsberg, così povero che Behan gli infila in tasca di soppiatto 80 dollari, bella cifra a quei tempi. Sul giovane senatore Kennedy, candidato alla Casa Bianca, è fiducioso, “la sua famiglia viene da una regione dell’Irlanda tanto onesta che le mele maturano sulla strada e nessuno ne ruba mai una”. Grato, JFK invita Behan alla Casa Bianca.

La nipote dello scrittore, Rosemary Behan, decide nel 2001 di tornare a Manhattan e, passo dopo passo, ripercorrere i luoghi che lo zio aveva reso leggendari: “il bello di New York? Nessuna pecora selvaggia vi morderà mai”. Era un tempo duro, le donne non erano ammesse in vari bar fino al 1970, la moglie di Behan, quando i troppi fan lo costringono a bere di nuovo, deve aspettarlo fuori, i neri sono discriminati, i gay schedati dalla polizia. Nessuna nostalgia zuccherosa ma, accanto a quella violenza, c’era forza, eleganza, speranza, maturità. La disperazione si sublimava in lavoro, l’energia virile aveva il motto “work hard party hard”, sotto col lavoro, sotto con le feste. Il libro, che a New York è relegato nelle librerie antiquarie, torna in Italia mentre gli slogan intolleranti di Donald Trump spaccano l’America. Brendan Behan, che ripeteva “Cosa vedrei volentieri in Spagna? Il funerale del dittatore Franco”, riconoscerebbe in tv la nazione amata? Il professor Terence Moran, che conobbe Behan da studente, include i suoi libri nei corsi universitari “per ravvivare il canone, troppo mogio”. Perché nel 2016 gli scrittori bevono succo di melograno antiossidante, mangiano quinoa macrobiotica e dibattono, serissimi, se le Metamorfosi di Ovidio siano un libro troppo violento per i ragazzi. La violenza del tempo consuma alla fine Behan, ma che forza, che grinta, che amore nella sua New York.

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