Nel 1973, piena Guerra Fredda, il leader comunista Breznev incontrò il presidente Nixon in California. Un brindisi di troppo portò il capo del Cremlino a familiarizzare con il rivale repubblicano, al punto che, ubriaco, prese a raccontargli dei dissensi nel Politburo. Il giorno dopo la sbornia Breznev chiese all’ambasciatore Dobrynin che fungeva da interprete: «Anatoly ho parlato troppo?» E il veterano diplomatico russo, in America dal 1952 al 1986, rispose laconico «Sì, ma non ti ho tradotto».  

Altri tempi, altre spie, altri leader: ora Mosca e Washington sono impigliate in un petulante gioco di ripicche, con reciproche espulsioni di personale da ambasciate e consolati. Ieri Heather Nauert, portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha comunicato che l’amministrazione Trump ha ordinato la chiusura di tre sedi diplomatiche russe negli Usa, il consolato generale a San Francisco e due dépendance, una dell’ambasciata a Washington, l’altra del consolato a New York. Da giorni il segretario di Stato Rex Tillerson è nel mirino del presidente Donald Trump, che lo considera un moderato e s’è offeso terribilmente per la battuta «Il presidente parla per sé», con cui l’ex capo della Exxon diventato ministro ha preso le distanze dalla Casa Bianca dopo gli agguati dei razzisti in Virginia. Senza entusiasmo Tillerson ha dovuto dunque chiamare il suo collega ministro dei Esteri Sergej Lavrov, col quale ha ottimi rapporti, e gli ha comunicato la decisione. «Non abbiamo cominciato noi» ha commentato Lavrov.  

Ma è davvero così? La ritorsione di ieri controbatte la decisione del presidente russo Vladimir Putin di ridurre il personale americano in Russia di 755 unità, presa a luglio. Ma Putin ribatteva il diktat del presidente Barack Obama che, dopo aver fatto sequestrare due villette che servivano ai russi per lo spionaggio civile del Fsb e militare del Gru, aveva espulso nel dicembre scorso 35 diplomatici di Mosca, in ritorsione per la cyberguerra che l’intelligence russa ha condotto - a detta di Cia, Fbi e Nsa - per inquinare la campagna elettorale per la Casa Bianca 2016. Allora Putin, fidando che l’elezione di Trump gli desse un interlocutore più morbido, aveva fatto il signore, dicendo di non volere replicare colpo su colpo. La soddisfazione per la sconfitta della Clinton, considerata un falco, e il successo della guerra di disinformazione gestita dai trolls del Cremlino, da San Pietroburgo alla Macedonia, lo induceva alla magnanimità. Il vero umore nell’ex Urss era dato da Konstantin Kosachyov, presidente commissione esteri, che definiva la scelta di Obama «agonia convulsa di una carogna spacciata». 

Presto però Trump s’è trovato stretto dall’inchiesta per il Russiagate, le accuse di collusione tra il suo staff e le manovre del Cremlino, e il Congresso a maggioranza repubblicana ha lanciato nuove sanzioni contro la Russia. Il presidente sbuffa insoddisfazione via twitter ma deve alla fine rassegnarsi: malgrado le intenzioni di Putin e Trump gli interessi e le trame in corso sono troppo forti, i due leader non riescono a avviare il disgelo e le intese che auspicano. Le prossime grandi manovre militari russe nell’Est Europa (100mila uomini dispiegati) non aiutano il riavvicinamento. Putin, con l’abile cinismo di sempre, s’è adattato e ostenta indifferenza, lasciando intendere che sarebbe pronto all’amicizia, se solo quegli ostinati senatori Graham e McCain cedessero e l’inchiesta che l’ex capo dell’Fbi Robert Mueller, ora commissario speciale, conduce sul Russiagate venisse insabbiata. 

Purtroppo per Trump e Putin la tensione internazionale non dà tregua e online verità e propaganda si offuscano, come insegna Vladislav Surkov, mago della disinformazione russa sul Web che sarebbe al bando da Usa ed Europa per il suo ruolo di repressore, ma qualche salto nell’Ue sembra riuscire a farlo: Surkov è certo che il diritto internazionale sia una farsa e che le relazioni fra le superpotenze non siano diverse dai regolamenti di conti fra gang criminali. In questo clima di sospetti i nove alti dirigenti russi, compresi importanti diplomatici, morti negli ultimi mesi in misteriose circostanze attizzano il complottismo online: coincidenze o purga occulta del Cremlino per eliminare i testimoni del Russiagate?  

Dei due ambasciatori russi attivi nel 2016, a Washington e all’Onu, il primo è morto improvvisamente, il secondo precipitosamente richiamato a Mosca. Né raffredda le acque la febbrile campagna che il Cremlino promuove in America con i suoi trolls e bots, falsi account di social media che amplificano le tensioni tra la destra e la sinistra radicale, secondo l’ex agente Nsa John Schindler «per innescare da noi anni di piombo all’italiana». I trolls russi speculano sulle divisioni nell’amministrazione Trump, bersagliando per esempio il moderato Consigliere per la Sicurezza McMaster. Studiosi dell’Atlantic Council’s Digital Forensic Research Lab hanno identificato in Lee Stranahan, conduttore del sito fantoccio di Putin «Sputnik», il regista segreto della campagna online contro McMaster. L’affabile Dobrynin non avrebbe approvato.