Con compunzione abbiamo celebrato il ventiseiesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino, data che segna la fine della Guerra Fredda mentre il presidente cinese Xi Jinping stringeva la mano al presidente di Taiwan Ma Ying-jeou dicendo «Siamo una sola famiglia» e avvicinando Cina popolare e Cina nazionalista dopo quasi 70 anni.

Ma i venti della Guerra globale, purtroppo, non sono meno rigidi di quelli che soffiavano sulla rivalità Usa-Urss 1945-1989, e la decisione della Wada, Agenzia internazionale contro il doping nello sport, di denunciare la Russia per avere consentito, e protetto, l’assunzione di sostanze illecite da parte dei propri atleti, lascia subito l’ambito dell’atletica leggera per diventare geopolitica. 

Wada sostiene che, per aver drogato sportivi, intimidito e minacciato gli ispettori che somministrano i test antidoping, la squadra atletica di Mosca possa addirittura essere bandita dai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro 2016. La vecchia Guerra Fredda ebbe nei boicottaggi olimpici, Mosca 1980 per gli americani in protesta contro l’invasione sovietica in Afghanistan, e Los Angeles 1984 in ritorsione russa, due episodi malinconici. Lo sport era ring tra democratici e comunisti. 

Alle Olimpiadi del 1956, nella pallanuoto, la piscina si tinge di sangue nel match Urss-Ungheria dopo l’invasione di Budapest, il nuotatore Usa Don Schollander paragona le sue medaglie d’oro 1964 a una vittoria contro il Cremlino, i pugili cubani combattono per la gloria di Castro, la partita di hockey del «miracolo sul ghiaccio» 1980, vede i dilettanti Usa battere gli assi dell’Urss.  

Scene in bianco e nero tornano d’attualità all’epoca del web. Che cosa sta succedendo? Dobbiamo riavvolgere il film a Berlino 1989? Da più parti, soprattutto in Europa, si consiglia prudenza, non tirare troppo la corda con un Vladimir Vladimirovic Putin che sembra cercare ogni pretesto e alzare la tensione. È giusto, ragionevole, di senso comune e bene fa chi, in tal senso, si spende. Al tempo stesso però è bene che il lettore non anticipi un disgelo prossimo tra Washington, Bruxelles e Mosca. Se anche gli occidentali l’offrissero, Putin non l’accetterebbe almeno fino al 2017, quando il nuovo presidente americano si insedierà negli Usa. La favorita Clinton, democratica, e tutti i candidati repubblicani di punta, lasciano intendere che, semmai, con la nuova Casa Bianca la diffidenza aumenterà. Putin pensa che la Guerra Fredda sia finita male, e come certi tifosi di calcio che rigiocano all’infinito i derby trascorsi, ne contesta l’esito. Con abilità tattica il presidente russo vuol restaurare, se non l’egemonia del Pcus, almeno una sua parvenza simbolica, Mosca non deve più fare da partner minore. Domanda certamente legittima, ma i modi utilizzati per imporla, Cecenia, Georgia, Ucraina, Europa dell’Est, Siria, Asia Centrale, repressione per dissidenti e media, uso spregiudicato dell’intelligence, rendono problematico, perfino per i pragmatici europei, una risposta positiva. 

Il doping – ne sa qualcosa la nostra Novella Calligaris che gareggiava contro le gigantesse gonfiate in Germania Est - è stato il marchio di fabbrica dell’impero sovietico, e l’inchiesta Wada offre inquietanti timori che i modi di una volta siano tornati. Se escludere Mosca dai Giochi Olimpici sarebbe misura estrema, da evitare fino all’ultimo, ai russi vanno chieste però lealtà, trasparenza, accesso ai commissari internazionali e punizioni per i colpevoli. 

Perché non si tratta, in conclusione, di Olimpiadi e doping. Usa, Europa, Russia e Cina si affrontano per determinare chi comanderà nel XXI secolo. Privo di un Paese guida, stile Gran Bretagna nell’Ottocento e America nel Novecento, il mondo non ha bussole. L’Onu è lottizzata, a volte corrotta, sempre incerta. La Cina ha aperture geopolitiche con Taiwan, con la Banca di Sviluppo Asiatico, e opposti tamburi di guerra con le isole artificiali, l’offensiva sulle rotte commerciali del Pacifico. Gli Stati Uniti di Obama alternano toni duri a distrazioni e indifferenza. L’Europa resta ripiegata sulla propria crisi economica e culturale, priva di comune difesa. Putin è Putin. Niente G8, né G20, lo studioso Ian Bremmer parla di G0. Nel vuoto di potere, i bulli infestano le crisi locali, Medio Oriente, Africa, nessuno si cura dei profughi. 

La storica alleanza Europa-America che vinse la Guerra Fredda è stata in fretta abbandonata caduto il Muro e con le guerre di Bush junior. Ora perfino Londra guarda ai commerci con Pechino senza chiedere nulla a Washington. Nell’auspicare che a Rio sfilino tutte le bandiere di tutti i Paesi, sorrette da atleti puliti, si può sognare che le democrazie seppelliscano le proprie discordie contro il disordine globale, ma senza speranze.