Basteranno professionalità, competenza e una burocratica lista di buone intenzioni ad Hillary Clinton, democratica, per battere il populista repubblicano Donald Trump nel palio Casa Bianca?  

Il discorso con cui la Clinton ha chiuso la tumultuosa Convenzione di Philadelphia è stato così in stile Amministratore Delegato, citazioni calibrate per tutti, pensioni, clima, Wall Street, spesa pubblica, fabbriche, operai e piccole aziende, scuola, gay, disabili, da far temere che Hillary tirasse fuori le slide illustrando il suo business plan.  

Non c’è dubbio, l’ex Segretario di Stato è più preparata del magnate di New York, ma gli americani votano nel presidente un leader di passione, calore, totem, comunità, non solo un diligente manager. «Hillary», come amici e nemici la chiamano, ha dalla sua il 40% del paese, contro il 60. Deve dunque portare a votare tutti i democratici, almeno il 40% dei bianchi e il 60% delle minoranze, ma se i dissidenti sanderisti non si fanno persuadere dal suo stile diesel alla Merkel, e se qualche astenuto si innamora della turbo-demagogia di Trump, sono guai. 

Consapevole del rischio, la Clinton impugna l’ottimismo tradizionale dei repubblicani, citando il vecchio leone Ronald Reagan del 1984 «It’s morning in America», è giorno in America, contro il cupo messaggio di Apocalisse di Trump, certo della decadenza nazionale. Nel Novecento il messaggio solare, da F. D. Roosevelt «temiamo solo la paura», ha sempre vinto sul pessimismo, ma si vota nel XXI secolo, con la crisi ad avere impoverito, in benessere e speranze, interi ceti di lavoratori. Le tante storie di successo elencate alla Convenzione, da miseria ed emigrazione alla Borsa, Hollywood, il Congresso, suscitavano per tradizione entusiasmo in chi guardava da casa, ma ora neppure i consiglieri di Hillary sono certi non scatenino l’invidia sociale di chi vive male. 

Le soluzioni che la Clinton offre all’elettorato per gli intrattabili problemi del presente, Putin, Isis, la Cina, mercato globale, lavoro, diritti personali, sono cerebrali, ricche di grafici e statistiche. Ma, come dimostrano nel loro bellissimo saggio «Stealth democracy» (democrazia invisibile) i politologi Hibbing e Theiss-Morse, milioni di americani, e altrettanti europei, sono persuasi, anche dal web, che le soluzioni siano invece «facili, ovvie, scontate», se solo i politici condividessero il «buon senso popolare» invece dei soldi delle lobby e dei piani tecnocratici. 

Trump offre ai milioni di scontenti, persuasi come lui che l’America declini, scettici sull’ottimismo di Obama, uno spot sexy ed elementare, colorato come i video gossip del clan Kardashian. Hillary offre l’Enciclopedia Britannica da imparare a memoria. Trump è un’incognita per l’America e un pericolo per il mondo, ma ottimismo e competenza, da soli, non bastano a isolarlo. Ad Hillary serve uno scatto di passione per riconquistare l’America degli offesi e degli illusi. I delegati sanderisti che hanno borbottato durante la sua relazione, contestando il generale Allen e l’ex capo della Cia Panetta «Basta guerre!», hanno perso, ma sperano nel 2020 di occupare il partito, come Tea Party e Trump tra i repubblicani e la sinistra di Corbyn tra i laburisti inglesi. 

Tra caos e ordine, due vicende hanno però fatto storia. Hillary Rodham Clinton prima donna nominata da un grande partito alla presidenza e il distinto, malinconico, commosso signor Khizr Khan, accanto la moglie velata, che ricorda «da patriota americano e musulmano, che ha per gli Stati Uniti assoluta fedeltà» il figlio, capitano Humayun Khan, caduto per salvare i suoi soldati da un terrorista islamista. Levando fiero una copia della Costituzione Usa, nata proprio a Philadelphia, Khizr Khan ha sillabato «Trump l’ha mai letta?». 

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