La migliore analisi dell’umore americano nel pieno della crisi shutdown viene dal giudice della Corte Suprema Nino Scalia, genio conservatore di origine siciliana.

«Quando sono arrivato a Washington - racconta - si andava ai party a chiacchierare con politici democratici e repubblicani. Katharine Graham, editrice del “Washington Post”, adorava queste cene. Adesso non capitano più». Adesso, col blocco sulla spesa, la destra repubblicana e il presidente Obama ai ferri corti e la possibilità del default, con il dollaro, valuta di riserva del mondo, in bilico, una cena tra rivali politici finirebbe su YouTube come prova di «tradimento». I siti vicini ai Tea Party boicotterebbero il colpevole del brindisi bipartisan, il talk show radio di destra di Limbaugh tuonerebbe, in tv i comici della sinistra alla Jon Stewart riderebbero dei «liberal al caviale».

Che succede in America? Quando è cominciata la rivalità estrema che trasforma chi discute in Senato in Giuda, la mediazione in tradimento, i partiti in nemici? Nel 1992 Clinton batté Bush padre in elezioni dure. Clinton fu accusato di aver tradito la moglie, ribatté citando le tasse di Bush, venne allora disprezzato come renitente alla leva, e scatenò la governatrice democratica del Texas Ann Richards che distrusse come «bamboccione figlio di papà» G.W.H. Bush. Botte da orbi. Eppure alla fine della campagna i manager protagonisti di questi calci sotto la cintura, James Carville democratico e Mary Matalin repubblicana, si sposarono, Romeo e Giulietta americani.

Li divideva la squadra, li univa la passione per la politica militante, sport estremo. Sarebbe possibile oggi un simile matrimonio? No, sarebbe impossibile, ma quando è nata la rottura? Da giovane Reagan era stato democratico, diceva «Non sono io ad avere lasciato il mio partito, sono stati loro a lasciare me». Nel 2013 una simile dichiarazione d’amore lo farebbe assaltare dai Tea Party a ogni comizio. Clinton nominò ministro Rubin, guru di Wall Street. Lo facesse Obama, quel che resta di Occupy Wall Street - pochi militanti pettinati alla Rasta accampati a New York tra Broadway e Lincoln Center - esploderebbe.

A lungo Washington si è vantata, davanti alla politica partigiana europea, di sapere guardare al «National Interest», l’interesse nazionale. Quando gli estremisti dei due partiti si mettevano al centro del ring, i «wisemen», i «best and brightest», la classe dirigente educata nei campus Ivi League delle migliori università, si ritrovava in un club, il Century a New York, l’AlfaAlfa a Washington (denominato per una pianta che deve bere sempre, gioco di parole per i cocktail da ingollare) e chiudevano il deal, la mediazione.

A Chicago, da ragazza Hillary Clinton era repubblicana, come il padre. La dinastia dei Rockefeller era divisa, repubblicani moderati gli anziani, democratici e perfino radicali i giovani. Il disegnatore Garry Trudeau con la sua striscia Doonesbury, ironizza su Washington da decenni ma quando prese a caricaturare Bush padre come nullità e Bush figlio come gladiatore scemo, sua madre, amica di Barbara Bush, lo rampognava: «Dopotutto tu e G. W. siete andati a Yale all’università insieme».

La classe dirigente era unita da questa cultura comune. I «saggi» che scrissero la filosofia americana del dopoguerra, forza in casa e compassione ragionevole all’estero per contenere l’Urss rilanciando l’Europa, ex nemici compresi, Harriman, Acheson, Kennan, Lovett, McCloy, Bohlen, non si consideravano democratici o repubblicani, sdegnavano la politica militante. Si credevano pilastri dell’establishment, patrioti.

La working class aveva i suoi momenti di unità non nei campus ma nel servizio militare, dove ragazzi di ogni nazionalità si incontravano e scoprivano magari che, al di là delle frizioni etniche, li univa il lavoro. Poi c’erano fabbrica e sindacato a farli discutere. Fino a metà Anni Sessanta, operai e intellettuali votavano insieme per i democratici, agricoltori tradizionalisti e broker di Borsa per i repubblicani. Divisioni superate, quando un presidente affascinava, alla Eisenhower o Kennedy. La rottura del sentire comune, quella che lo studioso Roberto Grandi chiama nel suo manuale «Come vincere le elezioni» «La strategia aggressiva del non fare prigionieri», cancella il senso di comunità, perduto in città senza rioni solidali, in sobborghi e campagne dove si guida da soli e ci si incontra sempre tra uguali. «Giochiamo a bowling da soli» lamenta il sociologo Putnam.

Il web rimanda il cittadino ai suoi compagni di idee, il dibattito schietto che il pittore Rockwell e il registra Capra ritraevano nelle riunioni al Municipio del villaggio del New Deal, si inaridisce in pollice verso su Facebook. Il senatore democratico Moynihan, da ragazzo lustrascarpe a Times Square, spiegava «Il Primo emendamento alla Costituzione ci garantisce libertà di opinione, non di fatti». La cultura politica dell’era web inverte il principio illuminista dell’opinione pubblica che guarda la realtà e ne trae giudizi. Ci si fa un’idea, pro Obama o anti Obama, pro tasse o anti tasse, e si va online a corroborarla raccattando dati, farlocchi o meno.

Per anni nelle università americane si è insegnata la filosofia postmoderna di Derrida, degenerata pian piano in una nebbia testuale dove tutto è incerto, vero e falso parodia del reale. Le forme scettiche del relativismo postindustriale divampano in America perché il Paese si sente scettico, perde coesione e fibra morale. Vuote chiese e sinagoghe tradizionali, affollati i culti carismatici e ortodossi, in mano a lobbisti e Big data i partiti, i giornali in crisi, radicalizzati e banalizzati a caccia di copie e click, i campus preda di affaristi e fumi teorici, la vecchia America digrigna i denti e si divide. Ecco la base umana dello shutdown: ne restano fuori i cervelli della nuova economia high tech, gli immigranti che lavorano e costruiscono il futuro, i ceti urbani e rurali che cercano un secolo se non da superpotenza almeno da Paese che non perde tenore di vita. Difficile oggi dire chi prevarrà tra diaspora culturale o quel che resta del «National Interest».