Se Donald Trump vince la nomination del partito repubblicano ritaglio questo articolo e me lo mangio» scrive sul quotidiano Washington Post l’editorialista Dana Milbank. Nate Silver, guru dei Big Data che azzecca i risultati elettorali dal sito FiveThirtyEight, continua a dirsi certo che, nel 2016, gli elettori non sceglieranno l’eccentrico palazzinaro Donald Trump per la nomination repubblicana e che i candidati del mainstream, «normali», come Jeb Bush e Hillary Clinton, tra i democratici, si rifaranno avanti. È la convinzione diffusa tra gli analisti classici, e tutto lascia presumere che in primavera la vedremo avverarsi. Io la condivido, eppure ne sento la scarsa efficacia nel chiarire cosa sta accadendo nell’America dell’autunno di Barack Obama. Non importa oggi tanto spiegare perché Trump non vincerà, è assai più interessante capire perché non stanno vincendo Bush e Clinton, eredi di due formidabili macchine politiche, lubrificate da pingui finanziamenti.

La stragrande maggioranza dei commentatori – osserva John Judis sul National Journal – è ipnotizzata dall’usurato slogan della «personalità dei candidati». Li sentirete discettare su Bush che non raccoglie consensi perché «freddo, piatto, senza carisma», irriso nei dibattiti da Trump «Beh, stasera Jeb sembra avere un po’ di energia…». Di Hillary Clinton ricordano l’incolore campagna per la Casa Bianca 2008, o l’eccesso di cinismo con cui lei e il marito, l’ex presidente Bill, dribblano gli scandali.

I media classici affrontano la campagna elettorale 2016, quinta del XXI secolo, prima in cui i candidati competono nel sistema integrato di comunicazione, giornali, tv, web, Big Data che tocca ormai tutti gli elettori (meno del 15% dei cittadini Usa non accede a internet, e tra loro pochi votano), come se si trattasse di Nixon-Kennedy 1960 o Johnson-Goldwater 1964. Usano ancora solo due elementi di giudizio, ideologia dei candidati e personalità. La crisi finanziaria 2008, la crisi del ceto medio seguita a globalizzazione e tecnologia, il rauco dibattito 24 ore online, hanno invece reso poco rilevante l’antica dialettica Personalità&Ideologia, lasciando in panne candidati e commentatori che si attardano a seguirla.

Per capire davvero cosa sta accadendo, perché Trump – sia pure solo nei comizi, nei sondaggi e nei like del web – vola, mentre Jeb e Hillary stentano, leggete un dimenticato saggio della politica americana, pubblicato nel 1976, che, con astuzia, Judis ripesca. Si intitola «The Radical Center: Middle Americans and the Politics of Alienation», e il suo autore, il sociologo Donald Warren, per primo comprende come la calamita destra-sinistra non attragga più l’elettorato di centro, piccolo borghese e operaio, arrabbiato nel vedere il proprio status minacciato dall’economia che penalizza chi non ha studi e conoscenze per un buon lavoro.

Alienati e frustrati, gli elettori del Centro Arrabbiato possono raccogliersi intorno al populismo di Trump, «Via gli emigranti, basta con i politici corrotti, l’America torni grande!», o entusiasmarsi tra i democratici per il senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, che sta dando filo da torcere alla Hillary. In un talk show i seguaci di Trump, «di destra» e la base di Sanders, «di sinistra», vengono etichettati come acerrimi nemici. Nella realtà, un bottegaio di periferia messo fuori commercio dai grandi magazzini Walmart che tifa Trump e un operaio metalmeccanico filo Sanders, veterano del sindacato Uaw che ha perso i suoi 28,12 dollari l’ora per un nuovo assunto, magari immigrato, che va in linea di montaggio per 14 dollari, sono spinti dalla stessa dinamica storica.

Jeb Bush e Hillary Clinton non annaspano perché «noiosi»: non lo sono affatto, il repubblicano capace di sposare un’ispanica, rompendo la tradizione protestante dell’aristocratica famiglia anglosassone, convertendosi al cattolicesimo e imparando lo spagnolo, la democratica che litiga con i notabili dell’Arkansas perché, da femminista, insiste nell’usare il cognome Rodham, anziché farsi chiamare Clinton come da galateo del Sud, e poi rompe i tabù unica ex First Lady della storia eletta al Senato.

Trump e Sanders non vinceranno le elezioni (se verranno entrambi nominati non mangio questo articolo, come il collega Milbank, ma invito a cena 10 lettori de La Stampa scelti via il nostro sito www.lastampa.it). Brillano in questa prima fase perché, al contrario di Bush e Clinton che pensano davvero di poter andare alla Casa Bianca, non si curano di bilanci da far quadrare, Siria da pacificare, Putin da contenere, sanità e scuola, ma snobbano le lobby di Washington intercettando la rabbia del ceto medio e dei lavoratori impoveriti. Magari poi li tradiranno alle urne, messi in minoranza tra i tanti che invece prosperano, o sperano di prosperare, nella new economy, ma per ora – come chi si appassiona a Corbyn, Grillo, Le Pen, Tsipras, Salvini, Podemos – preferiscono un’emozione, un’illusione, un sogno di riscossa, al piano di crescita con le slides PowerPoint, redatto da un laureato ad Harvard, mentre loro sputano sangue per far finire almeno le superiori ai figli.