Non ci sono stati a Washington caroselli di auto né clacson spiegati per festeggiare, come a Teheran, l’avvio dell’accordo sul nucleare in Iran. Ma nell’annunciare gli storici «parametri» concordati dai Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu, più Germania e la ministro Ue Mogherini, il presidente Obama ricorda al riottoso Congresso a guida repubblicana che «la maggioranza dei cittadini vuole l’intesa» (66% a 33 fonte «Washington Post»). 
L’accordo non è firmato e per i bravissimi ministri degli esteri Kerry e Zarif c’è da limare il testo e tenere testa agli irriducibili fino a giugno. Obama scommette sulla Storia, e il Medio Oriente, se arriva il sì del Leader Supremo Khamenei e dei repubblicani, cambia. Non si tratta di 2 centrifughe su 3 che si fermano, (1 su 3 calcolano i pignoli). Si tratta dell’America che aveva in Medio Oriente due interlocutori, l’Iran dello Shah, confermato al potere dal disgraziato golpe Cia anti Mossadeq 1953, e l’Arabia Saudita. La vittoria degli ayatollah nel 1979 polverizza quello che l’esperto Ken Pollack chiama «il primo pilastro», gli attentati del 2001 dimostrano quanto bacato dai fondamentalisti sia l’alleato saudita. Washington cerca un accordo con Saddam Hussein in Iraq, ma il dittatore sunnita fa sì guerra all’Iran sciita, poi abusa della fiducia invadendo il Kuwait nel 1990 fino a disastro 2003.
 
Obama riapre con gli iraniani il dialogo sulla «dignità» che Zarif chiede a ripetizione, perché davanti alla guerra civile tra sunniti e sciiti gli americani hanno bisogno dell’antica cultura persiana (Emma Bonino è stata tra i primi ad avanzare questa strategia). La Casa Bianca azzarda fino alla rottura con il premier israeliano Netanyahu, che grazie al duello rusticano vince le elezioni, ma si ritrova isolato.
È troppo fragile l’accordo per anticipare come finirà ma possiamo anticiparne le prospettive in America. Se il Senato (dove esce dalla Commissione Esteri il falco senatore Menendez per uno scandalo, ed entra l’obamiano Cardin) non rilancia sulle sanzioni e concede l’ok al nucleare civile di Teheran, Obama ottiene un successo e mette in secondo piano la debacle dell’adesione europea alla Banca di Sviluppo Cinese Aiib.
 
Sauditi ed egiziani non dovranno lanciare la corsa all’atomica anti Iran, e il prossimo presidente Usa avrà carte da giocare su Siria, Iraq, Palestina, Yemen, di sponda con gli iraniani. Sarebbe per Obama, come per Nixon in Cina 1972, svolta strategica, capace di dar frutti in guerra, nell’economia, nel costume. Il grido «Morte all’Amerika» risuona dal 1974 in persiano, ma milioni di iraniani hanno contatti, famiglia, radici, interessi economici e di studio negli Stati Uniti. Se il disgelo proseguisse vedrebbero, osserva Mohammad Ali Shabani su «Foreign Affairs», la propria valuta, il rial, risalire contro l’inflazione seguita alle sanzioni e il proprio passaporto essere rispettato (è accettato solo da 40 capitali senza visto).
I repubblicani, che hanno invano mandato una letteraccia agli ayatollah per sabotare il negoziato, sono davanti a un dilemma. Se alzano le barricate di scriteriate sanzioni o troppo a lungo cavillano nel dibattito – ma il repubblicano Corker, presidente della Commissione Esteri, promette equilibrio se Obama non scavalca il Congresso andando dritto al Consiglio di Sicurezza Onu - isoleranno gli Usa. Cadrebbero intanto le sanzioni internazionali, le aziende di tutto il mondo, le banche e la finanza farebbero di nuovo affari con l’Iran e dal boom resterebbero fuori proprio le compagnie Usa, sponsor dei candidati repubblicani. Da qui a giugno vedremo quanto il Medio Oriente muterà, quanto i populisti contano in Iran ma anche se a Washington gli statisti hanno ancora una chance contro i demagoghi