Domenica 4 dicembre si torna a votare. Il forte rumore generato dalle chiacchiere e discussioni tra costituzionalisti, politici, giornalisti e politologi lascerà il posto a un segno grigio nel silenzio di una cabina elettorale. I temi affrontati sono stati molti: dalla deriva autoritaria osteggiata dai sostenitori del No, ai timori per l’instabilità dovuta a un’improvvisa caduta del governo avanzati dai seguaci del #bastaunsì.  

Nelle ultime settimane grande protagonista dell’arena politica è stata la stampa internazionale. Il Financial Times è più volte intervenuto evidenziando le possibili ripercussioni di una vittoria del No al referendum sul piano finanziario europeo e italiano. Le banche italiane con più problemi, ha dichiarato il giornale inglese nell’ultima stoccata al No, rischiano di fallire se la riforma costituzionale sarà frenata. A sostegno del No si è schierato invece The Economist, in un articolo presto condiviso sui social dai più radicali fan di #iovotono. “L’Economist stronca la riforma di Renzi e Verdini e dice NO” scrive Beppe Grillo su Twitter.  

Proprio Grillo e la deriva populista sembrano però ironicamente le ragioni principali per cui The Economist osteggia la riforma di Renzi. “Il rischio dello schema del Signor Renzi - scrive il settimanale londinese - è che il principale beneficiario sarà Beppe Grillo, un ex comico e leader del Movimento cinque stelle”.  

Matteo Renzi, d’altra parte, è riuscito a ribaltare a proprio favore l’articolo dell’Economist che concludeva come un No al referendum avrebbe potuto condurre l’Italia a un nuovo governo tecnico. La frase è stata aggiunta ai tormentoni dei sostenitori del sì che hanno tentato di sfruttare il sentiment diffuso tra i cittadini italiani in relazione all’ultimo governo tecnico. Nella lotta tra le due fazioni in molti hanno già scelto, schierandosi per l’una o l’altra e dichiarandolo apertamente al bar, in radio e naturalmente sui social network.

 

 

L’utilizzo degli hashtag a favore del Sì e del No mostrano un andamento crescente anche se non lineare. Per tutto il periodo preso in esame, su Twitter i sostenitori del No prevalgono su quelli del Sì. Il picco del 28 ottobre per la campagna del Sì si verifica in concomitanza con la scelta di Matteo Renzi di scendere in Piazza del Popolo a Roma per entrare nel merito della riforma e sostenerne l’approvazione. Gli hashtag a favore del No sono invece particolarmente popolari il 13 novembre, quando scoppia il caso della lettera inviata da Matteo Renzi agli italiani all’estero per invitarli a votare a favore del Sì. Il frastagliato andamento dell’uso degli hashtag segue gli eventi della quotidianità e spesso i talk show televisivi dedicati al referendum. Così può spiegarsi il picco comune del No e del Sì il giorno 20 novembre quando il premier Matteo Renzi, indiscusso perno delle discussioni sul referendum, si è scontrato con Maurizio Landini nella trasmissione “In 1/2 ora” di Lucia Annunziata. Dialogo che ha offerto motivazioni forti a entrambi gli schieramenti.  

 

  

Tra i temi discussi sui social, non è sfuggito lo scontro epico da #Mentana tra Matteo Renzi e l’ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita. “Ho come l’impressione che tu non abbia letto la riforma” ha detto Renzi al democristiano, scatenando l’ira di quest’ultimo che ha tuonato: “hai fatto un partito in cui parli da solo”. Nulla da fare per Enrico Mentana che non è riuscito a placare gli animi. Su di lui, poi, permane il solito mistero che appassiona: andrà a votare? si schiererà? Nel 2010 scriveva infatti in una nota su Facebook: “fin da metà degli anni Novanta ho deciso di non votare più, se non per qualche referendum: anche perché non si può raccontare il rosso e il nero e intanto fare il tifo per uno dei due”. Entra nelle discussioni anche il Ministro Maria Elena #Boschi, principale promotrice della riforma insieme a Matteo Renzi. Protagonista di spazi editoriali e dibattiti televisivi, la Ministra ha ribadito più volte le ragioni per cui la scelta degli italiani prevista per il prossimo 4 dicembre è d’importanza decisiva per il futuro del paese.  

Tra i citati sostenitori del sì, c’è #Verdini. Ha fatto infatti parlare di sé la presunta scelta del Tg2 di non mandare in onda la registrazione del confronto tra Giorgia Meloni e il leader del gruppo parlamentare Alleanza Liberalpopolare-Autonomie. La mancata messa in onda è stata denunciata dalla Leader di Fratelli d’Italia che ha promesso non lascerà cadere la faccenda. Popolari sui social anche i leader della destra spaccata: #berlusconi, #alfano e #salvini. Tra un tweet e un post Fb, intanto, la data del 4 dicembre è alle porte e presto si saprà se la Carta costituzionale del paese verrà o meno modificata attraverso questo strumento di democrazia partecipata che proprio quest’anno compie 70 anni.  

 

 

In principio fu il referendum per la scelta della forma di governo del paese. Era il 2 giugno del 1946 quando i cittadini vennero chiamati a scegliere tra un’Italia ancora monarchica e la nuova avventura repubblicana. L’affluenza in quell’occasione fu la più alta mai registrata nella storia dei referendum italiani: 89,08%. Ed è facilmente spiegabile. L’Italia era appena uscita da una terribile guerra e da anni la gente non era stata chiamata per esprimere il proprio voto. Il desiderio di ricominciare e di partecipare era alto e la tematica era altrettanto rilevante. Quasi 25 milioni di italiani si recarono alle urne ed il risultato non fu affatto scontato: la Repubblica divenne la forma di Governo del paese con il 54,27% dei voti validi.  

Da allora l’istituto referendario venne regolamentato nella nuova Costituzione, ma sarebbero passati anni prima che si ricorresse nuovamente a questo sistema.  

I contrasti sorti in seguito alla legge Fortuna-Baslini, che nel 1970 aveva introdotto il divorzio in Italia, portarono nel 1974 all’indizione di un referendum abrogativo della stessa legge. La mobilitazione dei due fronti fu accesa e anche in questo caso si raggiunse un quorum molto elevato: 87,72%. Prevalsero i No, i voti contrari all’abrogazione della legge, così il divorzio restò in vigore grazie alla volontà del 59,26% degli elettori. 

Al 1989 risale il referendum consultivo con cui si decise di conferire al Parlamento Europeo “il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea”. Un referendum particolare, per la cui indizione fu necessaria una legge costituzionale ad hoc. L’88,03% degli italiani votò favorevolmente e anche in questa occasione il quorum superò l’80% dei votanti.  

Non possono vantare la stessa partecipazione molti altri referendum abrogativi tenutisi nel corso degli ultimi decenni. Con il passare degli anni si è infatti assistito ad un progressivo abbassamento dell’affluenza media dei votanti. Il record negativo di partecipazione spetta al referendum sulla legge elettorale del 2009, quando andò a votare poco più del 23% degli italiani. E in generale, negli ultimi anni, la media dell’affluenza registrata è stata sempre più in calo, con l’eccezione del referendum del 2011 che con il suo 54,8% è stato l’unico referendum abrogativo degli ultimi venti anni a superare la fatidica soglia. 

Perchè un calo quasi costante dell’affluenza? Dalla disaffezione diffusa per la politica all’utilizzo strategico del non-voto, passando per la complessità degli argomenti proposti, sono molte le ragioni che potrebbero spiegare il fenomeno.  

Per la sua natura di referendum costituzionale, raggiungere il quorum però non sarà un problema il 4 dicembre, quando il prevalere del Sì o del No promuoverà o boccerà definitivamente la riforma proposta.  

 

In 70 anni di storia dei referendum italiani ci sono stati altri due soli casi analoghi, e in tempi abbastanza recenti: nel 2001 e nel 2006. Due referendum diversi per temi ed esito. Nel 2001 vinse il Sì. La proposta di revisione prevedeva allora la modifica del titolo V, con un maggiore riconoscimento del ruolo delle autonomie locali e l’attuazione del principio di sussidiarietà. Per esprimere il proprio parere sulla legge si recò alle urne il 34,1% degli elettori e la modifica venne promulgata con il 64,2% di voti favorevoli. In quell’occasione il Sì fu predominante in tutto il territorio nazionale, o quasi.  

 

L’unica regione in cui i No superarono i Sì fu la Valle d’Aosta, con il 51,2% di voti contrari. Il Trentino Alto Adige registrò invece il più alto numero di Sì con il 76,9% di voti favorevoli, risultato interpretabile con la voglia di sperimentare le maggiori funzioni che la nuova legge costituzionale concedeva agli enti territoriali, in una regione caratterizzata da sempre da una forte spinta all’autonomia. Tutt’altra storia quella del referendum del 2006. In quell’occasione la revisione della parte II della Carta prevedeva significativi cambiamenti dell’assetto istituzionale del paese. Si recò alle urne il 52,5% degli elettori, e di questi il 61,3% espresse un voto contrario all’approvazione delle modifiche alla Costituzione. Lombardia e Veneto furono le uniche regioni dove il Sì fu in vantaggio, mentre in Friuli Venezia Giulia il No ottenne di poco la maggioranza con un 50,4%.  

Narrativa, elaborazioni dati e grafiche Catchy a cura di Alice Andreuzzi, Carla De Mare, Lorenzo Coscarella e Nicola Piras, realizzate nell’ambito del progetto DEEP di Alkemy Lab, in collaborazione con DtoK Lab e Kode Solutions.