Ho avuto modo, per lavoro, di seguire i grandi eventi internazionali degli ultimi anni, le Olimpiadi di Londra 2012, il Campionato del Mondo di calcio 2014 in Brasile, l’Expo 2015 in Italia. Due competizioni sportive e una manifestazione di economia e cultura, tre paesi assai diversi per storia, tradizione, identità, eppure confrontando i miei appunti con l’immenso scrigno della memoria Google, trovo una identica narrativa, che dice molto, credo, della coscienza nel nostro tempo.
A pochi giorni dall’inaugurazione dei Giochi Olimpici nella capitale britannica, l’autorevole tv Bbc ammoniva costernata come le infrastrutture non fossero pronte.

Mentre le prime pagine erano terrorizzate dal cronista che aveva fatto passare una finta bomba dai controlli, insultando gli addetti alla sicurezza come goffi poveracci. L’influente The Guardian si preoccupava piuttosto dei cecchini e delle rampe antimissili piazzate sui tetti, persuaso che l’imponente movimento Occupy London sarebbe stato protagonista di una crociata «contro il capitalismo agonistico».

Il giorno della prima partita a San Paolo, Brasile-Croazia, 12 giugno 2014, un quotidiano italiano concludeva invece perentorio «La festa Mondiale è rovinata», dopo gli scontri che gli anarchici, incendiando cassonetti in direzione delle telecamere, avevano innescato con la polizia. Dieci giorni prima lo storico Washington Post americano sentenziava compunto «Lo stadio di San Paolo non sarà mai pronto per il calcio d’inizio del 12 giugno».

Risparmio al lettore gli analoghi riferimenti all’Expo 2015 italiana, perché la narrativa è identica, «Nulla è pronto, niente funzionerà, Milano sarà deserto di folla e disastro organizzativo». La memoria del web restituisce, lo scorso maggio, il cliché precoce ed abusato, «Festa Expo rovinata», con gli scontri che sporcano la città, fatti scoppiare da attivisti a tempo pieno, lesti ad usare web, social media, tv, informazione.

A contraddire però le fosche previsioni, Olimpiadi, Mondiale ed Expo conquistano la fantasia di milioni di persone, raccolgono le emozioni della gente semplice, compilano – via selfie – un album sterminato di souvenir che i bambini di oggi mostreranno ai nipoti del XXII secolo, ammesso che si riesca a creare una tecnologia durevole quanto i dagherrotipi color seppia dei trisnonni.

Londra, Brasile e Milano hanno avuto problemi di ordine economico, politico, sociale, etico (lo scandalo Blatter evidente già nel 2014, la corruzione in Italia oggetto di inchieste giudiziarie) ma colpisce, se tornate con diligenza a rileggere i commenti, come le sarcastiche Cassandre della vigilia siano azzittite dalla realtà. In parte si deve alla scarsa dimestichezza dei media con la produzione «just in time», dove finire il lavoro troppo presto, allungando eccessivamente i tempi della consegna «time to market», è antieconomico. Avvitare l’ultimo bullone prima del debutto, lasciando solo spazio ai corretti controlli di sicurezza, è business model del presente, ma crea ansia ai non addetti ai lavori tra cui i giornalisti.

C’è però una contraddizione più importante e radicale. Tra il mondo dell’1%, leader politici, intellettuali, media, imprenditori, e quello del 99%, il ceto medio che teme di perdere status nella crisi e i lavoratori che lottano per non togliere alle famiglie le fragili sicurezze acquisite, la coscienza è opposta. Comprare un cappelluccio ricordo delle Olimpiadi, andare in giro con la sciarpa della Nazionale, passare una domenica d’estate al Decumano Expo con la fidanzata, sono magari passatempi un po’ kitsch per la classe dirigente, ma gioie capaci di mettere tanti in coda a Milano, Londra, San Paolo, Brasilia, Rio.

Confesso di essere stato lieto in quelle code, scattando per ragazzi ed anziani decine di selfie, comprando la mia paccottiglia kitsch. Il poeta Guido Gozzano elogiava «le buone cose di pessimo gusto», care alla brava gente, in opposizione al culto del Super Uomo del Vate D’Annunzio. Fronteggiamo problemi immani, lavoro, emigrazione, «i germi della terza guerra mondiale» denunciati dal presidente Mattarella. Non perdiamo dunque la capacità, antica e schietta, di far festa insieme. Milioni di persone l’hanno conservata e la folla a Milano Expo, fuori di ogni polemica, testimonia di questo bisogno, importante simbolo di comunità quanto un corteo politico. Perdere di vista il messaggio lanciato dal «movimento» di quelle allegre famiglie, per pregiudizio o snobismo, non ci rende chic impegnati, solo mediocri rancorosi.