In una sala fasciata da pannelli di quercia, nel più prestigioso istituto di ricerca a Washington, ogni venerdì si riunisce il Friday Lunch, pranzo riservato a parlamentari, businessmen, analisti, per discutere dei temi caldi. Off the record, niente trapela, ma si può, per una volta, dire di che cosa non si è parlato: nel Friday Lunch dedicato alle elezioni di Midterm del 4 novembre, il presidente Barack Obama non è mai stato nominato.

Due pollsters, una sondaggista democratica e uno repubblicano, hanno pronosticato il voto per la Camera, dove i repubblicani terranno la maggioranza senza ansie, e la battaglia in corso per il Senato. Il Grand Old Party repubblicano ha bisogno di 6 seggi per controllare anche il Senato e rendere inutili gli ultimi 24 mesi di Obama alla Casa Bianca. In vantaggio su 7 candidati democratici in Alaska, Arkansas, Colorado, Iowa, Louisiana, New Hampshire e Nord Carolina, i repubblicani devono però difendere 3 loro seggi, in Georgia (corre Michelle Nunn, figlia dell’ex senatore Sam Nunn), Kansas e Kentucky. Georgia e Louisiana potrebbero andare al runoff, lo spareggio, in dicembre e gennaio.

Il Senato è in bilico estremo, ma il presidente non fa comizi per magnetizzare con il carisma gli incerti. Tutti i candidati, anche i «super-obamiani» hanno, con garbo o a brutto muso, chiesto al presidente di restarsene a Washington. «Un suo comizio è il bacio della morte - ammette sconsolata una spin doctor democratica -, infiamma i repubblicani al voto, infuria gli indipendenti che ormai detestano il presidente, delude i nostri».

I numeri, i Big Data che portarono alla seconda vittoria Obama 2012, sono spietati con il cerebrale primo presidente afro americano: 42% degli elettori lo apprezza, 51% lo boccia, il 60% degli americani è persuaso che il governo «sbagli tutto, il Paese sia su una rotta pessima, l’economia vada a rotoli», come nei giorni del crack 2008 (fonte Abc/Washington Post). Sui paraurti delle automobili gli estremisti attaccano l’adesivo «Grazie Obama per Ebola!» e fa magari ridere, ma tre elettori su quattro si lagnano della riforma sanitaria, del suo disastroso varo con il sito Internet in tilt, della ritirata frettolosa da Iraq e Afghanistan (e i cittadini sono ingenerosi, perché invocavano loro per primi il tutti a casa), della sciagurata battuta di Obama «Isis? Squadretta di dilettanti», delle minacce di raid contro Assad in Siria 2013 salvo poi fermarsi spaventati all’ultimo.

Impressiona, nell’autunno mesto di Obama, sfogliare l’album ingiallito delle illusioni, iperboli e chimere che ne salutarono l’avvento 2008. «Siamo felici!», scriveva il quotidiano parigino «Liberation»; il premier inglese Brown: «Mai la Storia si dimenticherà di lui, finché si scriveranno libri di Storia»; il segretario Onu Ban Ki-moon: «È un’ora storica!»; il premier indiano Singh: «Viaggio straordinario…». Lirico il «New York Times»: «L’elezione di Obama è la catarsi di una nazione…un’ora simbolica…per cambiare voce al Paese…Obama è nulla di meno di un fenomeno…in un giorno che scintilla nella Storia…».

Meno di 40 settimane al governo, bastano alla giuria del Nobel per la Pace per dettare parole che risuonano patetiche: «Premiamo lo sforzo straordinario di Obama per la diplomazia...e un nuovo clima dove il dialogo torna al centro…grazie a Obama la democrazia e i diritti umani progrediscono…è rarissimo che un leader abbia saputo dare al mondo tanta speranza in un futuro migliore…». L’agiografia, motivata dall’astio per G.W. Bush, sgomenta nella débâcle 2014. Nei due anni a venire l’ex mitologico Obama può solo salvare due cardini della sua eredità, primo presidente afro-americano e riforma sanitaria, null’altro.

Cosa ha trasformato l’eroe Barack nel fantasma Barack? Il lavoro che non arriva ai ritmi necessari, la ripresa che lambisce appena il ceto medio, un mondo con la Cina diffidente, Putin nemico, gli europei amici micragnosi che non firmano il patto commerciale Usa-Ue? Sì, anche, ma la favola Barack si disfa per la stessa personalità del presidente, isolato dai suoi difetti, freddezza, snobismo, scarsa sensibilità per gli umori profondi dell’anima americana, così bene percepiti da Reagan e Clinton, incapacità di far politica con l’opposizione, sia pure con l’intrattabile Gop dei Tea Party. E lo allontanano dal Paese anche le sue virtù, il decoro da professore di Harvard che storce il naso alla cultura di massa, l’incapacità di un gesto populista, piacione per la base. È un leader amletico, freddo, «aloof» nella bellissima parola americana, e in giorni di crisi stile 1929 la grande Repubblica chiedeva invece un presidente capace di scaldare e incoraggiare. Un Roosevelt, non un guru.

Eletto con la sfida «unirò l’America che la politica da gladiatori divide», Obama polarizza invece quanto G.W. Bush. Mezzo secolo fa, il 27 ottobre 1964, Ronald Reagan pronunciò il suo primo discorso da repubblicano «Dopo una vita da democratico», «Tempo di scegliere». L’America – disse Reagan – se ne infischia di destra e sinistra, le interessa se stiamo salendo, o stiamo scendendo, secondo il sogno antico della libertà.

Obama ha provato a governare con l’intuizione di Reagan, ma senza riuscirci. Non ha strategie, piani, visione, solo un dolente scetticismo intellettuale sul futuro, certo del declino storico Usa. Si limita dunque a reagire alle crisi che via via si palesano, Ucraina, Isis, Ebola, senza leadership. Al Friday Lunch i repubblicani gongolano, ma i democratici fanno i duri. «Gli elettori ispanici ci voteranno comunque contro le politiche anti immigrazione, ce la faremo per la Casa Bianca 2016». Forse sì: ma quanto poco è durata la fiaba di Barack Obama, il profeta guida del XXI secolo!