Il 30 aprile 1992, allo Yacht Club di San Diego, California, Il Moro di Venezia, bellissima barca dell’imprenditore Raul Gardini vinceva la Vuitton Cup conquistando la finale America’s Cup. Gardini, camicia bianca aperta sul petto, punteggiava l’Oceano Pacifico con i mozziconi di sigaretta, e non sorrise mai ai tifosi in festa. Sui moli, tra calici di prosecco, barche di lusso, uomini ricchi, ragazze bellissime, d’improvviso, da nord, si leva una colonna di fumo. L’autostrada è spaccata, in fuga da Los Angeles chiunque possa lasciare la metropoli di Hollywood, mentre verso L.A. affluiscono i mezzi militari della National Guard, camion dei pompieri, ambulanze.  

Una giuria popolare –annuncia la tv- ha appena assolto due poliziotti, filmati da un passante mentre bastonavano a sangue un automobilista afroamericano fermato per caso, Rodney King, e divampa la sommossa che alla fine costerà 60 morti, 2300 feriti, migliaia di incendi, un miliardo di dollari in vandalismi. Chiesi passaggio a un pompiere volontario, «Se divide il costo della benzina la porto», in poche ore apparve Los Angeles, dove i rivoltosi avevano ridotto in fin di vita un camionista a colpi di estintore, in diretta tv, i coreani difendevano i negozi armati di machete, i ricchi erano tappati nelle ville con gorilla e mitra M 16, l’anarchia regnava nelle periferie di South Central. Le gang, i Bloods e i Crips che avevo visto tre anni prima negoziare una tregua, subito fallita, con la scrittrice Leon Bing, rubavano, stupravano, regolavano conti, la polizia, l’odiata LAPD, era sopraffatta. 

Per una settimana Los Angeles brucia tra barricate, rivoltellate e vendette, il povero Rodney King si appella alla radio per la pace, «Non potremmo andare tutti d’accordo?»: in questo inferno lo scrittore americano Ryan Gattis ambienta il romanzo Giorni di fuoco tradotto da Katia Bagnoli per Guanda, titolo originale All involved, gergo delle bande criminali, «Ci siam tutti dentro». Gattis racconta sul suo sito ryangattis.com di avere studiato l’organizzazione gerarchica delle gang, i riti di iniziazione, la ferrea disciplina, le punizioni, il distorto, violento, senso di cameratismo che ne anima i membri. 

Punto di partenza è dunque l’incredulità dei duri delle bande quando intuiscono di tenere la città in mano, senza che i «cops», i poliziotti, riescano a tenerli a bada. È black out in pieno giorno, regno dei lupi dove nessuno cerca giustizia sociale, rivendicare i diritti dalla brutalità degli agenti è scintilla subito spenta dalla barbarica carica contro l’ordine. Cervello della gang dell’ «hood», il rione di Lynwood, è «Big Fate», neppure 30 anni e già al potere in una zona che non ha il degrado di South Central –da quelle parti vive anche la tennista Venus Williams- ma è ridotta a campo di battaglia. La morte di un buon diavolo, il cuoco di fast food Ernesto, ammazzato perché parente di due gangster, innesca la vendetta, grand guignol da Quentin Tarantino. Apache, l’abile braccio destro di Big Fate Apache, che deve il nome di battaglia allo scalpo strappato a una vittima, vogliono vendetta, Lupe Vera, crudele sorella di Ernesto, lesbica padrona della sua amante, Lorraine, comprende come a L.A. ogni norma sia caduta, tranne “occhio per occhio, dente per dente”, un fucile a pompa, un coltello, un gruppo di teppisti, ultimo potere in campo. 

Le rivolte urbane hanno sempre affascinato i letterati, il poeta italiano Nanni Balestrini dedicò nel 1977 i suoi versi al «Blackout» di New York, ma traendone ancora una lezione di protesta, come se dai saccheggi i disperati provassero a far sentire la propria voce, negata dal potere. Mezzo secolo cancella questa illusione, Ryan Gattis è cosciente che la violenza contestata della polizia accende falò senza speranze, rabbiosi ed effimeri. 

Scrive la critica del New York Times Michiko Kakutani «Il romanzo di Gattis racconta una storia come un cocktail ad alta concentrazione di ottani: dura, nervosa, a tratti dolorosa nella violenza, ma animata da un’intima comprensione della vita quotidiana dei personaggi, nei quartieri dominati dalle gang, da Lynwood a South Central». Kakutani ha ragione, I giorni di fuoco sono un reportage letterario dall’assedio che arse la California. La rivolta di Los Angeles fu l’addio alle armi alla politica del Novecento, che in tante città aveva alzato barricate sognando giustizia per gli oppressi. Con violenza cieca, ormai orfana di ideologie o utopie, i disordini di Los Angeles annunciano il nichilismo del primo XXI secolo che impererà su Africa, Balcani, Medio Oriente. Rileggere oggi in Gattis quella crudeltà senza speranze che allora vidi marciare in strada, esercito di fantasmi, raggela, come il ricordo di 14 mesi dopo, quando il Gardini trionfante di San Diego, morì solo e suicida, senza amici o tifosi, in un’altra tragedia, stavolta italiana, che ha avuto troppi cronisti e nessuno scrittore a ricordarla.