Jobs Act e Legge di Stabilità sono i principali provvedimenti legislativi che nelle scorse settimane hanno superato i maggiori scogli istituzionali. Si tratta di due leggi che definiscono insieme una parte importante del nuovo assetto che le politiche italiane dovrebbero assumere per far tornare a crescere il Pil e l’occupazione, almeno nelle intenzioni del Governo.

Proprio nel profilo finanziario della nuova riforma del lavoro risiede l’aspetto sul quale si sono trovate sinora concordi le critiche di tutti i sindacati. Dopo l’ambiguità della delega sui licenziamenti, secondo i critici il difetto più evidente della legge sul lavoro è quello di disegnare un impianto delle politiche attive e passive eccessivamente ambizioso dal punto di vista delle coperture necessarie.

Il dibattito intorno a questo aspetto della riforma ha un effetto benefico: orientare l’attenzione degli attori istituzionali e dell’opinione pubblica verso quel complesso di misure che intervengono nell'ambito delle spese dello Stato legate all'occupazione. Indipendentemente dai giudizi, è all’interno di questo contesto che va considerata la rivisitazione delle forme contrattuali così come il disegno del nuovo contratto a tutele crescenti previsto dal Job Act.

Con gli interventi indicati nella legge il Governo mira a compiere un ulteriore passo nel passaggio da un regime di job property, ossia di difesa del posto di lavoro acquisito, a uno di flexicurity.  Con questo termine ci si riferisce a una condizione di flessibilità del mercato sorretta da ammortizzatori sociali estesi pressoché universalmente, ma di breve durata, e  sopratutto affiancata da efficienti politiche attive che garantiscano un rapido ricollocamento del lavoratore.

La principale obiezione che tradizionalmente si muove a questa impostazione  si riassume facilmente: costa molto. Eppure a osservare i dati europei si comprende facilmente quanto l’Italia sia in ritardo rispetto agli altri paesi. L’Italia è insieme alla Spagna la nazione che mostra il differenziale più evidente tra le spese destinate alle politche passive, ossie quelle che predispongono misure di sostegno al reddito (cassa integrazione, indennità di disoccupazione...), e quelle destinate alle politiche attive, cioè quelle volte a migliorare l’occupabilità, l’adattabilità, l’imprenditorialità e le pari opportunità dei lavoratori (formazione, ricollocamento, orientamento, inserimento lavorativo).

Spesa per politiche attive e passive sul PIL (%), 2012 ( Spagna: 2011, Regno Unito: 2010); Fonte: Eurostat

Stando alle politiche passive, in Italia fino al 2012 le misure a tutela dalla disoccupazione parziale (cassa integrazione) erano limitate ai lavoratori dell’industria e del commercio, mentre il sostegno al reddito per la disoccupazione totale escludeva i lavoratori parasubordinati, autonomi, soci di cooperativa e apprendisti. La riforma Fornero (2012) aveva poi sostituito l’indennità di disoccupazione con l’Assicuazione Sociale per l’Impiego (ASpI) estesa anche a apprendisti e soci di cooperativa. Rimanevano quindi ancora esclusi lavoratori autonomi e parasubordinati. Il Jobs Act delega ora il Governo a definire la “universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa” e a estendere a tutte le lavoratrici parasubordinate l’indennità di maternità già prevista per alcune di queste, oltre che l'estenzione alle lavoratrici autonome con figli disabili non autosufficienti  (resteranno quindi esclusi gli altri autonomi). Le notizie che giungono dai tavoli tecnici del Governo dicono inoltre che il decreto attuativo dedicato all'ASpI disporrà un aumento della sua durata per alcune categorie, portando a 24 mesi il limite di 16 mesi previsto per il 2015 dalla riforma Fornero. Nella Legge di stabilità sono individuati  2,2 miliardi complessivi per gli ammortizzatori sociali. Stando così le cose, secondo il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano servirebbero altri 400 milioni per raggiungere l’obbiettivo dell’estensione prefissata.

Spesa per politiche passive sul PIL (%, fonte Eurostat)

Spesa per politiche passive sul PIL (%, fonte: Eurostat)

Spesa per politiche attive sul PIL (%, fonte: Eurostat)

L’Italia non mostra però solo un sistema più sbilanciato rispetto agli altri paesi, ma è anche il Paese europeo che nel tempo ha speso meno di tutti per le politiche attive, facendo registrare nel 2012 una percentuale al di sotto dello 1% del pil. Il Jobs Act prevede ora l’istituzione di una Agenzia per l’Occupazione che coordini i servizi per l’impiego e le politiche attive (oltre l’ASpI), ma “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

Non si spenderà quindi di più per le politiche attive, e chiaramente il cane rischia di mordersi la coda: viste le ristrettezze economiche è ormai troppo tardi per stanziare le risorse sufficienti ad innescare un circolo virtuoso nel mercato del lavoro?

La risposta più netta proviene da quello che è il più importante piano di sempre tra le politiche attive comunitarie. Si chiama Youth Guarantee, Garanzia Giovani in italiano, perché secondo la Raccomandazione europea dell’aprile 2013,  i paesi coinvolti dovranno “garantire ai giovani al di sotto dei 30 anni un'offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio, entro 4 mesi dall'inizio della disoccupazione o dall'uscita dal sistema d'istruzione formale”. Quello che l’implementazione del piano sta insegnando per il momento è che l’inefficacia delle politiche attive in Italia è sopratutto un problema di inefficienza, e non di mancanza di risorse. In questo caso infatti i fondi ci sono e giungono direttamente dall‘Unione Europea. Si tratta per l’esattezza di 1,5 miliardi di euro che l’Italia però non sta riuscendo a spendere, tanto che il Ministero ha già inoltrato la richiesta di proroga per il 2015.

E vero che il piano occupa un posto di secondo piano nella narrazione delle politiche del lavoro da parte degli organi di informazione e anche da parte delle stesse istituzioni. E’ vero anche che Garanzia Giovani si rivolge a una platea (neet e imprese) poco abituate a fare affidamento sui servizi al lavoro. Forse per alimentare la fievole fiducia dei destinatari, il Ministero oggi terrà una conferenza stampa volta ad illustrare “le novità che caratterizzeranno l'attività dei prossimi mesi, a partire dall'aggiornamento grafico e funzionale del sito nazionale e dalle iniziative che puntano ad accrescere l'efficacia delle misure previste dal programma”.  Tra le righe del lancio del Ministero si può leggere l’intenzione di un rilancio del piano, che come dimostrano i monitoraggi ufficiali e quelli informali, attualmente non ha raggiunto l’obiettivo.

  • Il numero degli iscritti (331.094 al 4 dicembre)  è nettamente inferiore rispetto alla platea potenziale individuata dall’ISTAT in 2,2 milioni di neet.

  • La stragrande maggioranza degli iscritti dopo i 4 mesi ideali, non ha ricevuto non solo alcun offerta, ma nemmeno la presa in carico.

  • Le offerte di lavoro sul portale sono largamente inferiori al numero degli iscritti e sono disallineate rispetto agli obiettivi del piano.

Implementazione di Garanzia Giovani al 4 dicembre (dati Ministero del Lavoro)

Con Garanzia giovani si conferma quindi quanto già si sapeva. Punto primo: i centri per l’impiego pubblici intermediano circa il 3,9% della forza lavoro italiana e collocano una percentuale ancora inferiore. Manca inoltre il coordinamento con le agenzie per il lavoro private. Prima di Garanzia Giovani, solo 6 regioni prevedevano per esse un sistema di accreditamento. Investite con la legge Biagi di importanti funzioni (intermediazione, selezione, formazione) le agenzie svolgono quindi oggi la funzione prevalente della somministrazione di lavoro. Conseguentemente a livello privato come a livello pubblico non si sono sviluppare le professionalità delle politiche attive.

Secondo: nonostante le diverse banche dati sul lavoro esistenti nelle pubbliche amministrazioni in Italia, queste restano disconnesse le une dalle altre impedendo lo scambio e l’incrocio di informazioni utili a raggiungere l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Insomma, almeno per le politiche attive il problema culturale e infrastrutturale precede quello finanziario. Il nuovo assetto delineato dal Jobs Act insieme all’implementazione di Garanzia Giovani costituisce quindi al contempo un’opportunità e un rischio per tutti gli attori del mercato del lavoro: da un lato chiama di nuovo scuole, università, agenzie, centri pubblici, regioni e amministrazioni a farsi carico di precise responsabilità, dall’altro rischia di rimanere l’ennesima manifestazione di intenti, pronti a far ritorno nell’oblio se a Garanzia Giovani non sarà fatto fare uno scatto di qualità. Solo così che si potrà assegnare alla flexicurity la qualifica di concreto orizzonte di welfare attivo anzichè di mero neologismo ideologico.