“Ti ricordi dell’attentato a Sadat?”. La voce del mio amico, un dirigente del partito democratico assai esperto di Italia, suona al telefono da Washington tesa, incerta. La capitale americana, alla vigilia del giuramento del nuovo presidente democratico, Joe Biden, il 20 gennaio, mercoledì, è in stato d’assedio, 25.000 uomini e donne della National Guard, in assetto da guerra, con blindati, jeep, elicotteri, posti di blocco, barriere in cemento armato vigilano perché i terroristi che hanno devastato il Congresso il giorno dell’Epifania restino lontani.

Ieri era stata annunciata la Marcia delle Milizie, manifestazioni nei vari parlamenti statali, per protestare contro l’elezione di Biden e della sua vice, Kamala (pronuncia Kohmala) Harris, e in solidarietà con il presidente uscente Donald Trump. Benché mascherati, con in spalla i mitra militari M 16, elmetto e giubbotti antiproiettile in Kevlar, i miliziani non hanno però raggiunto l’ambita quota di un milione, agognata dagli organizzatori, e si son visti in poche città, sparuti gruppi di untorelli, più da selfie al bar che da colpo di stato.

Eppure, il mio amico, nella città che mai, dall’11 settembre di venti anni fa, quando Al Qaeda colpì il Pentagono, quartiere generale militare degli Stati Uniti, ha visto stazioni della metropolitana sbarrate, militari controllare i passanti, “Documenti?”, auto perquisite in ingresso o uscita, ponti chiusi, non si sente rassicurato dallo schieramento di forze, una frazione sarebbe bastata a mandare a gambe levate i teppisti che cacciavano il vicepresidente Pence e la Speaker della Camera per linciarli o prenderli in ostaggio. Perché Sadat dunque? Dopotutto, fin qui, le truppe hanno solo arrestato Guy Berry, ventiduenne della Virginia, trovato al 200 di Massachusetts Avenue NE con cinturone, fondina, pistola Glock 22, tre caricatori e altre munizioni, oltre a una paziente psichiatrica che si crede poliziotta e un tipo, con armi nel bagaglio, che dichiara di essere una guardia giurata ed è stato rilasciato.

In realtà ricordo benissimo l’attentato a Sadat, 6 ottobre 1981, facevo il caporedattore al Manifesto, era una parata militare cui presiedeva il presidente egiziano Anwar Sadat, odiato dai fondamentalisti per aver firmato la pace con Israele, vincendo quindi il Premio Nobel col premier israeliano Begin. La sfilata doveva rincuorare i falchi nazionalisti, celebrando la riconquista di parte del Sinai, perso nella Guerra dei 6 giorni del 1967, durante la guerra del Kippur 1973. Per precauzione, Sadat sapeva di essere nel mirino della jihad fondamentalista allora in fieri, le truppe erano armate solo a salve, e le misure di sicurezza imponenti. Nulla però poté impedire a una pattuglia di militari egiziani in divisa, non terroristi infiltrati ma soldati, guidati dal tenente Khalid Islambouli, di fermare il camion giusto sotto la tribuna d’onore, e, quando Sadat si alza in piedi credendo di ricevere un saluto, trarre fuori dall’elmetto le granate nascoste, lanciarle contro il presidente. Quando solo una esplode, Islambouli apre il fuoco, con i suoi complici, con i mitra Ak47 russi. Sadat era protetto da quattro file di guardie del corpo, inutile, cadono con lui, o muoiono per le ferite, in dieci, generali, diplomatici stranieri, il vescovo copto e restano feriti in 28, tra cui il futuro presidente Hosni Mubarak.

Ecco cosa teme il mio amico, non un raid dei Proud Boys, dei Wolverines o della Nazione Ariana, gruppi paramilitari fedeli a Trump. Né lo angosciano le trame di QAnon, setta segreta che ha partecipato all’assalto al Parlamento, in combutta con un paio di deputate estremiste, lasciando sul campo la militante Rosanne Boyland. La sua paura, diffusa nell’Fbi,  è che poliziotti o soldati traditori, affiliati ai gruppi eversivi, riescano a superare le barriere protettive intorno al presidente per ucciderlo, lanciando da lontano una bomba a mano o raggiungendolo con fucili da sniper, i tiratori scelti, tipo il Mark 22 appena adottato dalle forze speciali, tiro accurato fino a un chilometro e mezzo distanza, calcio pieghevole, facile da trasportare e nascondere.

Biden indosserà, sotto la giacca un corpetto antiproiettile, ma una sparatoria durante il giuramento, in diretta mondiale, oltre all’incolumità del presidente metterebbe a rischio la dignità stessa della grande potenza.

Ogni militare Usa giura fedeltà alla Costituzione e, da sempre, i soldati si son tenuti fuori dalla politica. Il generale MacArthur, durante la guerra di Corea, ebbe smanie di carriera politica sull’onda della fama conquistata nella Seconda guerra mondiale, ma il presidente Truman lo smobilitò senza esitare e i suoi colleghi non aprirono bocca. Perfino durante la Guerra Civile, 1861-1865, quando i cadetti dell’Accademia militare dovettero giurare fedeltà alla Costituzione, o secedere con gli stati del Sud, la scelta fu ben ordinata, su 278 allievi 86 venivano dagli stati schiavisti, e in 65 scelsero le dimissioni per combattere con la bandiera Stelle e Sbarre. E il legame fra i diplomati a West Point, sulle opposte trincee, rimase così formidabile, che il generale nordista Grant, futuro presidente, durante la feroce battaglia di Petersburg poteva mandare un messaggio di auguri al colonnello sudista Pickett, suo compagno in Accademia, per la nascita del figlioletto o addirittura lodare, al sanguinoso scontro di Fredericksburg, l’artiglieria ostile del suo compagno di studi Pelham.

È possibile che questa tradizione di onore e disciplina svanisca, nell’odio settario della politica americana XXI secolo? Il mio vecchio amico non è il solo a temerlo. Nella teppa che ha invaso il parlamento sono stati riconosciuti, arrestati, incriminati ex poliziotti, soldati, veterani, vigili del fuoco, la donna uccisa mentre saltava oltre le barricate della sicurezza, Ashli Babbitt, militante di QAnon a San Diego, California, aveva servito per 14 anni tra Aviazione e Guardia Nazionale, compresi periodi al fronte in Iraq Afghanistan, dove venne decorata.

Al contrario di quanto ritengono, erroneamente, vari osservatori italiani, innesco principale della rivolta di destra non è l’economia, la gran parte dei militanti, come i rivoltosi di Capitol Hill, sono borghesi del ceto medio o benestanti, ma la cultura, l’identità. Proprio come i jihadisti che uccisero Sadat, e i loro emuli fino a oggi, non rivendicano contro un sistema di classi che li opprime, ma rimpiangono una perduta stagione di potere e egemonia. La chimera della destra è un’America bianca, virile, potente, dove le razze hanno un posto assegnato, come le donne, le armi sono icona di forza, gli alleati vassalli feudali. Mito mai davvero realizzato, questo manifesto è, proprio come per i fondamentalisti islamici e i populisti estremisti in Europa, un rifiuto del presente, con la sua frenetica innovazione e sforzo di uguaglianza, a petto di un passato smarrito.

Da tempo, dunque, questa malinconica revanche anima l’infiltrazione dei terroristi di destra e degli estremisti nazionalisti nelle forze armate, preoccupando lo Stato Maggiore Usa. La rivista Foreign Affairs, organo del rispettato Council on Foreign Relations, anticipava, già prima dell’attacco al Campidoglio, come la crescente sinergia fra miliziani armati e corpi militari sia un pericolo per la democrazia americana. Nel loro rapporto per Foreign Affairs, Aila Matanock, docente all’Università di Berkeley, e Paul Staniland, dell’Università di Chicago, osservano come la “retorica del presidente [Trump] abbia dato legittimità alle azioni degli estremisti. Dicendo ai Proud Boys di “restare pronti”e non denunciando la marcia di Unite the Right nel 2017 a Charlottesville, Trump ha coltivato una ambiguità favorevole alla presenza dei gruppi della destra nazionalista nel dibattito corrente”.

La rete tv Cbs si occupa, in una sua inchiesta, del tenente della Guardia Costiera Christopher Hasson, veterano dei Marine e della Guardia Nazionale - il corpo che presidia Washington in queste ore - arrestato nel febbraio del ’19 per aver assemblato un arsenale illegale di armi, militando nella destra nazionalista e preparando attentati sul modello delle stragi di Anders Breivik, che nel 2011 uccise 77 persone, per lo più ragazzi, in Norvegia, o Brenton Tarrant, il terrorista che ha assassinato 50 innocenti in due moschee in Nuova Zelanda nel 2019.

Il tenente Hasson non è solo, per questo l’Fbi sta setacciando i curricula dei soldati mobilitati per l’inaugurazione di Biden, uno per uno, rileggendone i post sui social media, in cerca di minacce o complotti. Secondo la Cbs “l’estremismo alla Hasson deriva da molti fattori, il retroterra familiare, gli ideali, l’esperienza e la propria rete personale. L’esercito e il corpo dei Marine reclutano soprattutto nel Sud Est e nel Nord Ovest del paese, dove i gruppi di destra estrema sono radicati. E, fin dal 1998, il Dipartimento della Difesa ha notato come i leader dei gruppi di terroristi domestici incoraggino i loro militanti, uomini e donne, ad arruolarsi nelle forze armate, per ottenere accesso alle armi, training tattico e reclutare membri”. Tim McVeigh, condannato a morte per la strage di Oklahoma City nel 1995, 168 morti e 680 feriti, il maggiore atto di terrorismo Usa fino all’11 settembre 2001, era un veterano dell’esercito, tiratore scelto, registrato come repubblicano e iscritto alla NRA, la lobby delle armi.

Varie volte era stato redarguito per aver indossato magliette del Ku Klux Klan razzista in una base militare o avere litigato con commilitoni neri. Obiettivo della sua strage, la politica del New World Order del presidente repubblicano internazionalista George Bush padre, cui McVeigh opponeva una angusta visione nazionalista del paese. Al momento dell’esecuzione, giugno 2001, McVeigh, mai pentito, lesse i versi della poesia Invictus, di William Ernest Henley

“Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo che va da un polo all’altro,
Ringrazio gli dei qualunque essi siano
Per la mia indomabile anima.
Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
Incombe solo l’orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima”.

Erano i versi prediletti di un profeta che McVeigh, e i suoi accoliti, disprezzavano, Nelson Mandela, ai tempi del carcere: ora però, come tanti nobili simboli di onore e patriottismo, è sequestrata da un’orda sanguinaria che ha due obiettivi, colpire subito Biden e sradicare la democrazia in America. Per questo il mio amico, come migliaia di suoi colleghi, legge e rilegge cv di militari, in queste ore livide.