Nell’ultimo lembo Liberty di Palermo sorge la via XII Gennaio, dedicata al primo giorno della rivolta del 1848.
I ragazzi la attraversano di fretta verso i fast food, ignari dell’antica nota di Karl Marx: le barricate siciliane aprono in Europa l’anno delle rivoluzioni.
Lo status quo delle grandi potenze sancito a Vienna nel 1815 dopo Napoleone, non teneva più malgrado restaurazioni e repressioni, l’equilibrio era rotto per sempre.

I leader del mondo contemporaneo, a loro volta, provano a perpetuare lo status quo seguito alla caduta del Muro di Berlino, 25 anni fa, in geopolitica, in economia, nelle società, collezionando inevitabili fallimenti. L’equilibrio del 1989 si è dissolto, e malgrado fasi di auspicabile tregua, non tornerà. Il nuovo video dei guerriglieri Isis che, tra una decapitazione e l’altra, minacciano la Gran Bretagna, gli studenti in piazza a Hong Kong contro la democrazia fantoccio di Pechino, la guerra globale in Siria, Iraq, Afghanistan, Gaza, Libia, le tensioni in Ucraina e nei mari a Est e Sud della Cina, perfino le rovine sociali lasciate dall’epidemia di ebola in Africa, non sono affatto «focolai locali».

Sono le conseguenze di un vuoto, la mancanza di una leadership chiara, un sistema internazionale di poteri e contropoteri, organizzazioni multilaterali e forze militari efficienti, intese diplomatiche e confini sicuri, capaci di limitare conflitti e promuovere commerci e prosperità.
Si studia con ansia la visione, in buona parte condivisibile, che l’ex segretario di Stato Henry Kissinger offre nel suo nuovo libro, intitolato appunto «World Order», ordine mondiale, rimpiangendo i tempi in cui «si espandeva la cooperazione degli Stati, si osservavano regole comuni e norme, si abbracciavano sistemi economici liberali, rinunciando alla conquista di nuovi territori, nel rispetto della sovranità nazionale e nell’espandersi di modelli di governo democratici e aperti». Ora Kissinger, arrivato in America da bambino profugo ebreo, teme che il bonario passato sia bruciato da un’era oscura, e si chiede: «Siamo alla soglia di un tempo in cui forze al di là del controllo di ogni ordine determineranno il nostro futuro?».

La risposta è: sì, a meno di un repentino cambio di strategie. Governi e organizzazioni internazionali stentano invece a controllare le emergenze. Come proporre, per esempio, ai Paesi poveri le economie occidentali a modello, se lo stesso «The Economist», organo del capitalismo classico, deve amaramente ammettere che digitale e robotica sono capaci di ammassare immense fortune, dare opportunità sociali di comunicazione e cultura, ma non creando occupazione? I totem Google e Facebook impiegano 100.000 addetti, meno che una grande marca automobilistica negli anni del boom.

Privi di un modello convincente, «fate come noi e vi arricchirete», americani ed europei fronteggiano movimenti populistici alimentati dalla crisi del ceto medio, Le Pen, Grillo, Farage, Tea Party. Incertezze e divisioni li rendono deboli davanti a Isis, che Obama trattava da «dilettanti» salvo poi accusare l’intelligence di poca diligenza. Davanti alle proteste di Hong Kong la reazione è flebile, nel terrore non infondato che se la Cina precipita nel caos come l’Urss, la ripresa economica è condannata e la pace a rischio. Pochi anni fa, lo studioso Kishore Mahbubani affermava orgoglioso che il XXI sarebbe stato «il secolo asiatico», ma se la Cina non riesce a dialogare neppure con un pugno di studenti inermi, come può assurgere a guida del pianeta? Infatti il Vietnam, ex alleato di Pechino, compra ora armi dal vecchio nemico americano.

Chiudere gli occhi davanti al disequilibrio 2014 provoca più danni di quanti non ne elida, come dimostrano le frettolose retromarce di Obama in Siria, Iraq e presto Afghanistan. Un coraggioso intervento contro l’Isis nascente, un patto senza ipocrisia con la Cina per il rispetto degli accordi firmati su Hong Kong e diritti civili, intese altrettanto ferme con Putin sui patti con l’Ucraina, non avrebbero sempre segnato successi, ma avrebbero affermato almeno, nel caos vigente, che Usa ed Ue condividono ideali, se non sempre interessi, e sono pronti a impegnarsi insieme.

Tanti, invece, come gli aristocratici del Congresso di Vienna, deprecano che lo status quo si sia infranto, rimpiangono sottovoce Saddam e Gheddafi, il Muro a Berlino, tempi duri altrove, dolce vita da noi. Purtroppo globalizzazione, tecnologia, l’incapacità del mondo islamico di un equo di progresso, regimi a Mosca e Pechino, terrorismo, crisi economica, rendono ardua una stagione di armonia. Se Obama e i partner europei, nostalgici, affronteranno il mondo grande e terribile con timidezza, prepariamoci a gravi scacchi, altro che i video web Isis. I tempi chiedono leader democratici audaci, forti, saggi, capaci non di rimpiangere i «Bei tempi andati», ma di dare risposte all’angosciata domanda di Kissinger: e ora?