L’ex presidente sudafricano Nelson Mandela amava raccontare agli amici questa storiella: «Quando morirò, mi presenterò alle Porte del Paradiso e l’Angelo mi chiederà “Lei chi è?”. Io risponderò usando il mio nome tribale, “Madiba”. “E da dove viene?” insisterà l’Angelo, ed io “Dal Sudafrica”. L’Angelo mi guarderà “Ah, lei è quel Madiba. Credo debba accomodarsi ai Cancelli Infuocati, là sotto!”».  

E qui Nelson Mandela scoppiava nella sua accattivante risata, che in galera aveva confortato i compagni per 27 anni e poi affascinato leader politici, star dello spettacolo e dello sport, intellettuali, la giuria del Nobel e milioni di persone semplici. Autocondannandosi per scherzo all’Inferno, Mandela provava a schermarsi dall’icona di profeta della libertà e della giustizia più amato al mondo, e così facendo, con grazia, aumentava solo la sua influenza. Il mito del Che Guevara è offuscato dalla corruzione del regime cubano e dalle rivelazioni sulla sua durezza personale nella biografia di Anderson. John Kennedy resta amato, ma ha subito mille pesanti gossip sulla vita privata, il fratello Bob ha la saggezza di Mandela, ma la morte tragica nel 1968 gli ha impedito di lavorare davvero nella Storia. Ai leader comunisti asiatici, Ho Chi Minh in Vietnam e Mao in Cina, i successi contro il colonialismo e la popolarità nel 1968 degli studenti non bastano a cancellare la repressione feroce contro i propri cittadini e il disprezzo della democrazia.

Mandela, nato Rolihlahla Dalibhunga, ha avuto la grazia di maturare in un politico capace di parlare a chiunque, perché persuaso di non detenere la verità e davvero umano, cordiale. Nelle sue memorie, tradotte in italiano da Feltrinelli, Mandela ricorda il carcere duro di Robben Island, quando le guardie costringevano i detenuti neri a indossare i pantaloncini per disprezzo, a lavori umili e faticosi, chiamandoli con il nomignolo razzista «Kaffir boy», oggi fuorilegge in Sud Africa. Come il patriota italiano Silvio Pellico nel suo libro «Le mie prigioni» riconosce tra le sofferenze che il carceriere austriaco Schiller aveva il carattere di un uomo buono, così Mandela, nell’odio feroce dell’apartheid che divideva il suo paese, impara osservando i secondini che non tutti i bianchi sono «diavoli». Capisce, da leader politico geniale, che l’odio, il rancore, il risentimento perenne non porteranno che all’oppressione infinita dei neri e, alla caduta del regime Afrikaner, alla guerra civile e alla dittatura, tra massacri.

La qualità migliore di un leader è saper maturare, guardare non solo alle proprie idee e ai propri militanti, ma alle ragioni, i sentimenti, la cultura degli avversari. Un percorso difficilissimo in condizioni normali, ma quasi impossibile nel Sudafrica con i militanti neri uccisi, milioni di cittadini in condizioni di povertà, il disprezzo del razzismo. Quando va a studiare legge all’Università, Mandela siede accanto a uno studente bianco, che ricorda «per le orecchie a sventola». Quello, sdegnato, si alza subito per non avere compagno di banco un «coloured» e si allontana. Mezzo secolo dopo, quando gli ex allievi tengono una riunione celebrativa, il presidente Mandela fa cercare il ragazzo dalle orecchie a sventola, ma è morto. «Mi spiace - commenta Mandela - gli avrei chiesto della sua vita, gli avrei stretto la mano e assicurato che non gli serbavo rancore».

Né le prove terribili della politica, né le angosce private, i divorzi, gli adulteri della moglie, la morte precoce dei figli in incidenti o per l’Aids, hanno alterato la «buona volontà» di Nelson Mandela e il suo sorriso, il cercare l’intesa, il dialogo anche nelle feroci guerre civili della sua adorata Africa che cercava di conciliare. Il mondo lo ha adottato come «nonno» di tutti riconoscendo questa qualità. È facile ora dimenticare, nel tripudio dei riconoscimenti unanimi, che Nelson Mandela lasciò il carcere solo nel 1990, che a lungo - negli anni della Guerra Fredda quando il Sud Africa anticomunista che sorvegliava le rotte di due oceani era roccaforte importante - l’Occidente chiuse un occhio sulla tragedia dell’apartheid, e che il business ascoltò distratto le voci che chiedevano «divest», non finanziare o fare affari con Pretoria. Le prime pagine di tanti giornali, fino alla fine degli Anni Ottanta, testimoniano malinconiche questa ipocrisia.

Mandela ha chiesto di essere sepolto nell’ancestrale Qunu, area orientale cara alla sua famiglia: «Là sono stato un bambino felice, prendevo passeri con la fionda, raccoglievo miele selvatico, frutta e ortaggi, bevevo il latte caldo appena munto, nuotavo nei torrenti gelati e andavo a pescare con una lenza di filo di ferro». Il patriarca non ha mai perduto il sorriso di quel bambino, né nella sconfitta, né nella vittoria, né nella cella umida dove contrasse la tubercolosi, né nei palazzi del potere che lo ricevettero in gloria. Il miracolo dell’umanità di Nelson Mandela ha dunque parlato a ciascuno di noi, e per questo lo abbiamo amato e la sua icona ha brillato nella storia, come un sorriso di bimbo.