Viviamo in Ucraina la più grave crisi internazionale dalla fine della Guerra Fredda. Le tragedie delle guerre civili in Africa e nei Balcani, l’eterno Medio Oriente da Israele e Palestina alla Siria, due guerre in Iraq e una in Afghanistan, la tensione con la Cina sulle isole Senkaku-Diaoyu, non hanno mai posto a rischio l’equilibrio intero del pianeta. Lo scontro su Kiev non è ancora allarme rosso come i giorni dei missili a Cuba nel 1962, quando il presidente Kennedy e il leader russo Kruscev si sfidarono sull’orlo della guerra atomica, ma è duello senza regole certe, con possibili errori gravi, da una parte e dall’altra. 

Il referendum farsa imposto da Mosca alla Crimea si risolve come stabilito, gli exit polls parlano di 95% a 5 per il ritorno a Mosca. La Casa Bianca e l’Europa considerano l’annessione di Sebastopoli inammissibile e si apprestano a imporre sanzioni contro Mosca.  

 

Il Cremlino reagirà con analoghe misure, nel galateo inamidato delle ripicche diplomatiche, poi arriverà la sostanza: Putin si accontenta della Crimea o vuole nuove aree ucraine, gli basta una Kiev intimidita che resti a mezz’aria tra Bruxelles e Mosca, o la vuole di nuovo vassalla, come ai tempi del Pcus? La posta in gioco è storica, Vladimir Vladimirovich Putin si difende dall’espansione occidentale a Est o sogna un nuovo impero Urss? 

 

L’astuta condotta del Cremlino tiene in sospeso i rivali, a tratti persuasi che Putin voglia forzare la mano, altre che stia bluffando. Qual è la verità? A stare alla propaganda dei media russi «i fascisti» hanno conquistato Kiev, spalleggiati da americani ed europei, e la Crimea deve essere protetta da rappresaglie contro la popolazione amica di Mosca. La scusa per queste sciocchezze viene dal tentativo di abolire la lingua russa in Ucraina, subito bloccato dal presidente pro tempore Oleksandr Turchynov. Di scuse Putin ne troverà di nuove -ricordate la favola del Lupo e dell’Agnello?- e Kiev denuncia già scorrerie oltre il confine con morti. Se ci fosse un raid con vittime, una provocazione dei fascisti ucraini di Settore Destra, un attentato misterioso, Mosca potrebbe intervenire ancora. 

 

L’Europa e gli Stati Uniti sono perplessi. Davanti alla Crimea, da sempre legata a Mosca e solo nel 1954 ceduta all’allora repubblica sovietica dell’Ucraina, né il cauto Obama né la prudente signora Merkel, alzeranno il tiro, tanto più che gli americani sono, come la Teresa Batista del vecchio romanzo di Jorge Amado, «stanchi di guerra» e gli europei legati al petrolio e al gas russi (Svezia e Gran Bretagna pressano per sanzioni dure, Spagna e Italia per sanzioni wafer, la Germania media). Ma se Putin marciasse verso ovest e il confine Nato della Polonia, malgrado tutte le paure e le riluttanze occidentali, qualche cosa si romperà. 

 

Polonia e Svezia hanno scelto il riarmo, a Parigi e Londra si ripensa ai tagli al bilancio della Difesa, i Paesi baltici sono allarmati ed è forse prematuro, da noi, interrogarsi sull’abolizione dell’Aeronautica come ha fatto ieri la ministro della Difesa (dovremmo anche - per logica conseguenza tattica - abolire carri armati, artiglieria e, di conseguenza, le Forze armate: opinabile scelta in questo clima). La crisi è dunque in mano a Putin, se ordina l’escalation apre scenari imprevedibili. 

 

Ieri il presidente russo ha, come sempre, scelto l’ambiguità: al telefono con la Merkel ha ripetuto il suo sdegno per le minacce ucraine ai cittadini di origine russa, ma poi non s’è detto ostile a una mediazione Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), mentre il suo ministro Lavrov discuteva con il segretario di Stato Usa Kerry di «riforme costituzionali» a Kiev per risolvere lo stallo. 

 

Molti incoraggiano la cautela, ma occorre fare attenzione che Putin non legga la diplomazia come timore, e scateni la Fase II della sua «guerra speciale», occupare l’Ucraina con truppe mascherate da milizie locali. Per questo il quotidiano Washington Post, da sempre attento agli equilibri globali, propone ora una linea dura: le sanzioni e il blocco dei visti di viaggio vanno imposte non verso i pesci piccoli in Ucraina (come suggerisce anche la diplomazia italiana) ma direttamente contro «Gli oligarchi e mandarini del potere intorno a Putin… e tra loro Igor Sechin, presidente della compagnia petrolifera Rosneft, Vladimir Yakunin, presidente delle Ferrovie Russe, Alexei Miller, presidente di Gazprom (la grande compagnia del gas ndr). La Russia è governata da una cosca mafiosa. Se i boss non pagano pegno, le sanzioni occidentali avranno poco effetto». 

 

È un linguaggio insolito nel felpato mondo di Washington e non basta la nuova proprietà multimedia di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon a spiegarla. Il Washington Post indica al presidente Obama e agli europei il dilemma strategico: la strada della pace e della diplomazia passa stavolta da una linea forte, che tolga a Putin la voglia di attaccare ancora. Perché se Putin marciasse mai su Kiev anche il XXI secolo avrebbe la sua crisi di Cuba. Meglio non indurre il Cremlino in tentazione dunque, come ha fatto la Cina rompendo la tradizionale condotta filo-russa al Consiglio di Sicurezza Onu e astenendosi sulla condanna dell’invasione in Crimea. Pechino dice a Putin a suo modo «Fermati!», ora tocca agli occidentali farlo.