Il cinema italiano ha vinto dodici Oscar prima del trionfo di domenica con Paolo Sorrentino e «La Grande Bellezza». Vittorio De Sica e Federico Fellini da soli ottengono sette statuette (più l’Oscar alla carriera per Fellini).  

 E d è «Sciuscià» di De Sica, vincitore nel 1948 di quello che allora si chiamava «Oscar Speciale», a metter le basi per il futuro «Premio al miglior film straniero». Prima di De Sica Hollywood guardava e premiava se stessa, indifferente a quanto accadeva lontano da Los Angeles e dalla scritta immensa sulla collina franosa, un tempo «Hollywoodland», poi orgogliosamente solo “Hollywood”.  

Il cinema che l’America premia nel dopoguerra è il cinema italiano della realtà. De Sica vince nel 1948 con il bianco e nero tragico di «Sciuscià», neologismo italo-americano per «lustrascarpe», in un Paese che dal ’43 al ’45 conosce l’umiliazione della prostituzione, gli stupri di massa delle truppe coloniali. Nel 1950 De Sica rivince con «Ladri di biciclette», l’Italia che lo studioso Edward Banfield disprezza in un celebre saggio per il «familismo amorale», trova invece nella famiglia il riscatto, quando lo Stato crolla. 

 Hollywood premia l’Italia che eravamo davvero, e i critici nostrani parrucconi contestano il neorealismo, vergognandosi che i panni non vengano lavati in casa. De Sica rivince nel 1965 con «Ieri, oggi, domani», e già l’Italia della povera contrabbandiera Adelina - Sofia Loren -, costretta a restare sempre incinta per non andare in galera (personaggio ispirato dalla cronaca, con le 19 gravidanze di Concetta Muccardi, venditrice di Marlboro illegali) incontra il boom. Lo spogliarello sexy-ironico della Loren davanti all’incantato Marcello Mastroianni strega gli americani, sulle note di Abat-Jour di Henry Wright. 

 Anche l’Italia di Fellini oscilla tra realtà e fantasia, da «La strada» e «Le notti di Cabiria», premiati nel 1957 e 1958, alla nostalgia di «Amarcord», premio 1975, passando per il capolavoro «8 ½» statuetta 1965. È l’Italia del miracolo economico, in 15 anni passata da appena 7 case su 100 con acqua corrente, fognature e elettricità all’Oscar della valuta per la Lira, concesso nel 1960 dal Financial Times al Governatore di Bankitalia Menichella, da 430.000 automobili a 5 milioni di utilitarie e spider a scorrazzare in autostrada. Un’Italia ricca, che non lucida più scarpe o ruba biciclette, sensuale, ma incerta sul futuro, Dio, la politica, la propria identità. L’Italia senza Oscar di Antonioni. 

La nostalgia per il Paese perduto rimpianto da Pasolini, commuoverà gli Usa con «Nuovo Cinema Paradiso» di Tornatore nel 1990, e l’ambiguità dell’italiano mandolinaro, eterno vitellone che non fa la guerra ma gli amorazzi ed elogia la vita come fuga da se stessi, colpisce Hollywood nel 1992 con «Mediterraneo» di Salvatores. Benigni, con la favola «La vita è bella», fa storia a sé. 

L’America applaude quando ricordiamo ai membri dell’Academy il Paese che eravamo e più non siamo, o quando ci lanciamo nel Carnevale infingardo da Arlecchino e Pulcinella, pasticcioni, eleganti, sexy, pronti alla risata ma se c’è da fare sul serio, impegnarsi per un ideale, scappiamo con un flirt, un Gin Tonic, una bella pensione. In villa se va bene, altrimenti ci si accontenta della panchina. E gli intellettuali? Sproloquiano tronfi, dalla «Terrazza» di Ettore Scola con Gassman, a «La Grande Bellezza» di Sorrentino (guardate le perfette facce dell’editor Severino Cesari, che debutta come attore interpretando il marito della Direttrice nana). 

Film italiani «duri», «La battaglia di Algeri» di Pontecorvo, «Gomorra» di Garrone, «Il generale Della Rovere» di De Sica, «Salvatore Giuliano» di Rosi, «Baaria» o «La migliore offerta» di Tornatore, dove la realtà prevale sulla malinconia, non persuadono l’Academy. L’Italia deve avere sapore di «Eataly», essere commestibile, Doc, a chilometro 0, ruspante e chic, piccante e senza colesterolo, colta e divertente, come i siti web delle agenzie turistiche propongono al viaggiatore Business Class.  

Paolo Sorrentino – cui vanno vive congratulazioni per la vittoria, che speriamo riporti un po’ di ottimismo in giro da noi - firma il film dell’Italia rassegnata a non avere credibilità: le grandi aziende fuggono, i fondi di Borsa non investono, i laureati emigrano. Il suo è un apologo - giornalisti con attico sul Colosseo e feste da Grande Gatsby non ce ne sono più -, per mostrare il Paese com’era, vedi la cartolina dei primi 20, calligrafici, minuti. Il resto sono pasticci, smorfie, battute grevi alla «Jep» Servillo. La sua maschera, contrapposta da Sorrentino all’eleganza del Mastroianni di Fellini in «8 ½», ricorda un dribbling di Rivera davanti a un tackle di Gattuso, il design di un computer Olivetti di Sottsass contrapposto al piatto di «cacio e pepe» ammannito nei ristoranti trappola per turisti oggi. Il Paese che sperava e cresceva del 6% e il Paese che non sogna e cresce, dopo una generazione di stagno, dello 0,1%. 

 La nobildonna di Sorrentino guarda affranta la culla nella vecchia casa diventata Museo e noi siamo come lei. Mentre il Paese manda al governo con Renzi il leader più giovane da sempre, «La Grande Bellezza» è un monito: continuiamo così e finiamo eleganti straccioni a guardare il passato, vincendo magari un sacco di Oscar, ma senza un domani dignitoso.