«Motore della Storia Freno del Tempo Tu Bomba Giocattolo dell’Universo»: 1958, Oxford, il poeta beat italoamericano Gregory Corso declama il suo poema «Bomb», dedicato all’atomica, i versi a formare, su una lunghissima pagina, la sagoma del fungo nucleare. Gli studenti inglesi seguaci del Nobel pacifista Bertrand Russell, occhiali di metallo della mutua, all’occhiello il distintivo «fate l’amore non la guerra», non hanno il dono dell’humor, fischiano Corso e invano il suo compagno, Allen Ginsberg, urla «Str… è satira, non lode dell’atomica».

Quelli erano i tempi. La guerra mondiale finita da poco, nelle nostre città le frecce blu con la scritta RICOVERO visibili nei quartieri del centro, ricordo delle fughe dai bombardamenti. Ma dall’atomica, Hiroshima e Nagasaki lo provavano, non c’era fuga. I bambini americani si esercitavano scappando sotto il banco di scuola al fischio di una sirena, la pubblicità lanciava dai giornali cantine catafratte alle radiazioni, cibi liofilizzati e coperte di poliestere per scampare alla guerra Usa-Urss. Stalin aveva a lungo inseguito l’atomica, con le spie (tra i sospetti il fisico italiano Pontecorvo) e gli scienziati, tra cui il futuro Nobel e dissidente Sakharov. Klaus Fuchs e David Greenglass, i due agenti che Mosca infiltra al Manhattan Project, gli scienziati della prima atomica, mandano al Cremlino tutti i dati per realizzare subito un ordigno nucleare, ma la paranoia di Stalin e del capo della polizia Beria li boccia «disinformazione occidentale, dovremmo arrestarli!». Solo dopo le atomiche sul Giappone, Stalin permette al fisico Kurchatov di leggere i rapporti segreti, Beria obietta «E se tradisce?», Stalin gelido «Lascia lavorare i fisici ora, facciamo in tempo a fucilarli dopo».

La paura dell’inverno nucleare porta i Partigiani della Pace, organizzazione ombra del Partito comunista, a raccogliere solo in Italia 16.680.669 firme, un terzo della popolazione, compresi gli assi della Nazionale di calcio. Firmano i cattolici, che non amano l’Urss, ma odiano la bomba.

Avevamo dimenticato la paura dell’atomica no? Dopo la crisi di Cuba 1962, i trattati, il dialogo Reagan-Gorbaciov, la caduta del Muro, ci avevano distratto, già nel 1966 la band italiana I Giganti cantava serena «Noi non abbiamo paura della bomba…». Pochi esperti, come lo studioso Graham Allison di Harvard, ammonivano inascoltati del pericolo di un’atomica «sporca» in mano ai terroristi di Isis o Qaeda: se Brigate Rosse e 11 settembre hanno colpito tanto a fondo le nostre democrazie, resisterebbe la libertà a 40.000 morti inceneriti dalle radiazioni o cadremmo in un regime autoritario? William Perry, 89 anni, ex segretario della Difesa, ha paura della bomba anche oggi. Era nella squadra di Kennedy con i missili sovietici a Cuba e ricorda in una sua popolare lezione online, la chiamata che ricevette da un ufficiale qualche tempo dopo, «Vediamo nei radar 200 razzi atomici russi che ci volano contro, che facciamo?», pensando di morire in pochi minuti, solo per scoprire che si trattava di un «errore tecnico». Chi ricorda le tre testate all’idrogeno cadute per errore nel 1966 a Palomares, in Spagna, la quarta inabissata nel Mediterraneo?

Oggi Trump, il leader nordcoreano Kim Jong un, i leader cinese e russo Xi e Putin, giocano una partita nucleare fatta di bluff, certi che non ci saranno gli errori e i sabotaggi temuti da Perry e Allison, la confusione che accecava Stalin, hackeraggi ostili. La guerra, dice la storica Tuchman, è «marcia della Follia», l’Europa 1914 si aspettava un passo indietro che nessuno fece. Londra 1939 era certa che Hitler fosse sazio, Hitler che Londra fosse pavida, Stalin che la Germania fosse amica. Sappiamo com’è andata. L’estate 2017 è la più calda dall’ottobre cubano 1962. Il presidente Truman usò l’atomica, Stalin non avrebbe esitato ad usarla, ma, conclude lo storico Gaddis, quando Mosca e Washington videro gli effetti della bomba termonucleare, 1952-1953, compresero che la nuova guerra «non avrebbe distrutto il nemico, ma l’umanità», lezione brutale, che troppa pace fa dimenticare.