Steve McCurry  si racconta a Gianni Riotta in un libro-intervista pubblicato da Mondadori. La storia del fotografo, oggi in mostra al Citroniera delle Scuderie Juvarriane nella Reggia di Venaria, che ha calpestato le maggiori terre di guerra: dall'Afghanistan alla Cambogia, dal Nepal alla Birmania. 

Di seguito un estratto del libro pubblicato nel supplemento R2 Cultura, del quotidiano La Repubblica.

Io fotografo in guerra come un generale senza esercito

La storia Dalla Cambogia all'Afghanistan, dal Nepal alla Birmania. Steve McCurry si racconta in un libro-intervista a Gianni Riotta


Spesso i giovani fotografi o i ragazzi che incontro nelle scuole mi chiedono: «Come si lavora? Come si diventa un professionista?».
Non sempre ho la risposta pronta, perché ciascuno ha la sua vita, non ci sono strade prefissate, però non mi va neppure di essere evasivo e allora, chiacchierando, mi viene in mente che il primo passo è entrare nel sistema, trovarsi un posto in campo, perché senza contatti, senza un aggancio è dura. Se si parte proprio da outsider non resta che farsi coraggio, gambe in spalla e andarsene in giro da soli, scommettendo sul proprio talento e su un po' di fortuna, per essere al posto giusto nel momento giusto.

Ritorno agli esordi della mia carriera, diciamo intorno al 1980, sperando in qualche modo di rincuorare chi debutta adesso. La mia intenzione era di andare in Cambogia a fotografare i rifugiati, la moltitudine di disperati che aveva provato a fuggire dalla morsa dei khmer rossi, i sanguinari militanti del despota Pol Pot che prese il potere quando gli americani si ritirarono dal Vietnam, tra il 1973 e il 1975. I russi erano entrati in Afghanistan con il famoso colpo di stato a Kabul nei giorni di Natale 1979. Il successivo blitz "Operazione Tempesta 333" fu lanciato il 27 dicembre, con la cattura a Kabul del presidente afghano Hafizullah Amin e l'imposizione al potere del filosovietico Babrak Karmal. In pochi giorni la rottura della coesistenza in Guerra fredda divenne la storia più importante e, visto che conoscevo bene quell'area, feci una telefonata alla mia ragazza del tempo, pregandola di spargere la voce e vedere se qualcuno poteva darmi un lavoretto da freelance, pubblicare qualche mia foto; le chiesi di provare anche con Time e Newsweek. Qualcosa trovò, ma niente di che, un budget minuscolo.

Io dovevo andare in Afghanistan ed ero in Cambogia, ma il mio biglietto aereo già acquistato e pagato aveva come destinazione il Nepal e un freelance non butta via i biglietti aerei, sono troppo costosi e preziosi. Così volai dalla Cambogia al Nepal, poi un altro volo per l'India, treno fino a Delhi, ancora treno verso il confine con il Pakistan e da lì il pullman Lahore-Peshawar. Mi ci vollero tre giorni e oggi sorrido di quel vagabondaggio per risparmiare, ma non avevo un centesimo e dovevo spremere in quel modo folle il biglietto pagato. A Peshawar mi accampai in un alberghetto pulcioso, una stamberga da un dollaro a notte, mentre i colleghi dei grandi giornali erano alloggiati con ogni comodità in alberghi di lusso, grazie alle note spese. Da quella stanzuccia organizzai la spedizione in Afghanistan sui miei taccuini, generale senza esercito. Racconto questi dettagli per dire ai ragazzi che ci leggono: «Organizzatevi, non mollate. Stabilite un vostro metodo di lavoro e, da freelance o in squadra con un grande giornale, rispettatelo sempre. Siate voi stessi, con serenità».

Io partivo da solo perché non avevo alternative. Ma anche dopo la mia collaborazione con il National Geographic ho sempre selezionato i reportage, di volta in volta conciliandoli con il mio stile, i miei interessi, provando a non farmi trainare solo dalle richieste del mercato. Tante volte, da giovane e non, ho viaggiato a mie spese. Questo è il consiglio che mi capita di dare: se vuoi andare vai, quando hai deciso di raccontare una storia parti, non attendere che qualcuno ti scelga altrimenti rischi di restare a casa ad aspettare per tutta la vita.
A volte le proposte dei media sono noiose, poco brillanti, magari qualcuna devi accettarla, fa parte del gioco, ma rinunciare alle vicende che ti stanno a cuore, piccole o grandi che siano, tarpa l'entusiasmo, l'energia, la voglia di capire. Dunque, se capita l'occasione prendetela al volo, ma se il telefono non squilla, gambe in spalla e mettersi in viaggio di propria iniziativa, ok? Mi chiedono anche, Steve o Mister McCurry, dipende se siamo in redazione o in un'aula universitaria: «Come lavori? Come dobbiamo organizzare un reportage, preparandoci bene?»

Non ci sono regole, lo ripeto, io posso solo dire qual è la mia routine. Uno scrittore e un fotografo - ci si sorprende magari, ma le due tecniche, scrittura e fotografia, hanno molti punti di contatto nel montaggio, molte analogie che a prima vista sfuggono - devono cominciare considerando il tempo che hanno davanti. Non solo quello esterno, le stagioni che si susseguono, ma anche il proprio umore, i sentimenti che si sentono nell'anima in quei giorni. Come mi sento, che pensieri ho, qual è l'umore, il mood dominante sulla scena e dentro di me? Potete opporli o conciliarli, essere ansiosi a una celebrazione religiosa o sereni sotto un bombardamento, ma dovete essere coscienti di voi e dell'ambiente in cui operate, o verrete trainati in tutte le direzioni senza governare né voi stessi né la storia.
Quindi, metodicamente, stabilite i contatti sul campo, allacciate relazioni, rapporti, trascrivete numeri di telefono, salvate le mail con diligenza, rileggete il background dei personaggi, informatevi sulle forze rivali che si stanno combattendo, insomma non arrivate da sprovveduti.
Non temete troppo l'ignoranza, quando si comincia non si può subito essere specialisti, non datevene troppo pensiero, pian piano comincerete a conoscere la gente del posto, a fare amicizie.

Troverete la vostra strada in un villaggio minuscolo, dove vi saluteranno come un locale e anche nelle metropoli sterminate, quartiere dopo quartiere, disegnerete la vostra mappa personale, il vostro itinerario.
La profondità si ottiene così, non ci sono scorciatoie, servono fatica, disciplina, cammino. La vostra esperienza, di giorno in giorno, si arricchirà, magari non il vostro conto in banca! Se io decido di lavorare a un libro, un saggio, un reportage o un singolo ritratto, immaginiamo che sia ambientato a Rangoon - oggi Yangon e fino al 2005 capitale della Birmania - ecco come pianifico la spedizione: passo una settimana o quindici giorni a Rangoon, collezionando immagini e riflessioni conseguenti. Quando però poi, a più riprese mi capiterà di tornare a Rangoon, vivendo magari lì per sei mesi o un anno, ecco che il lavoro mi offrirà dei risultati del tutto diversi.
Non sto dicendo che solo vivendo a lungo in un luogo otterrete una pagina o una foto decente.

Non abbiamo sempre questa opportunità purtroppo, il tempo vola e i budget sono quelli che sono, a volte cinque giorni viaggio incluso è tutto quel che ci è dato. Alla fine, ecco la morale da non dimenticare: a nessuno frega - né ai lettori di un saggio o di un romanzo, né a chi guarda la foto appesa alle pareti di una galleria d'arte - quanto tempo abbiate speso a scrivere o fotografare. A nessuno frega quante settimane ci siano volute per mettere insieme un'antologia fotografica in volume, conta se l'immagine colpisce, se viene amata o no. Questo rapporto d'amore tra chi fruisce di un verso o di un ritratto è il centro della nostra vita di lavoro e guai se lo dimentichiamo, travolti dallo stress.
Puoi scrivere un verso o scattare un'istantanea in venti minuti, se funziona durerà per sempre.

 

L'estratto del libro Il mondo di Steve McCurry. Steve Mccurry si racconta a Gianni Riotta è stato pubblicato da Repubblica il 06/06/2016.