Il giorno dopo la scomparsa dell’avvocato Gianni Agnelli, il 25 gennaio 2003, il Corriere della Sera, che aveva salvato dal caos dandogli due leader, il geniale Ugo “Misha” Stille in direzione e l’austero Giorgio Fattori in amministrazione, pubblicò sterminate pagine di necrologi, in ricordo dell’imprenditore, senatore a vita, icona popolare del nostro paese e nel mondo, calcio, Formula 1, vela, moda. Solo due, su centinaia, contenevano la parola “gratitudine”, eppure tantissimi di coloro che celebravano la memoria di Agnelli gli dovevano tutto in termini di carriera, promozioni, apprendimento, opportunità, stile. La mancanza non si deve stavolta alla eterna carenza della virtù della riconoscenza, pure endemica nella nostra classe dirigente, ma all‘aplomb con cui Gianni Agnelli governava la sua sfera, sempre assegnando alle persone ruoli e cariche come se fosse la cosa più naturale, un normale avvicendamento nell’esercito, con il rigore che gli piaceva, teneva le spalline da ufficiale sulla scrivania e quando a Parigi uno studente gli chiese polemico, “E lei cosa faceva a 20 anni?” rispose asciutto “Ero in guerra, in Russia”.

Questo garbo ritroso veniva da qualche osservatore attribuito alla torinesità, la gentilezza sabauda nella quale l’Avvocato era stato educato, scegliendo di restare fino alla fine nella sua casa in collina, Villa Frescot, lo studiolo decorato da una foto del presidente Bush padre che celebra gli 80 anni lanciandosi col paracadute, come da ragazzo quando venne abbattuto sul Pacifico dalla caccia giapponese, e da un tappeto persiano ormai liso, cui era affezionato. In realtà l’Avvocato aveva un tratto di timidezza cortese, che le frequentazioni internazionali, John Kennedy e sua moglie Jackie, l’amico del cuore Henry Kissinger, David Rockefeller, non avevamo mai smussato: era curioso della vita e delle persone e, pur nato nel privilegio, aveva presto imparato, nell’esercito e al lavoro, che il talento, il coraggio, il carattere non sono distribuiti con il patrimonio. Sapeva di poter avere tutto, ma aveva un tocco di fanciullesca gentilezza nell’avvicinare le persone.

Quando Nick Hooker, regista del documentario di Showtime “Agnelli”, mi fece invitare per un’intervista, il producer gentile mi disse “Sappiamo che lei era amico dell’Avvocato”. Sorridendo ribattei, “No, io ero un giornalista che ha lavorato con l’Avvocato alla Stampa e che lui, anche da giovane, ha avuto il buon grado di consultare e incontrare. Se volete conoscerlo davvero, dovete fare la tara, forte, alla vicinanza che la gente postula, “mi chiamava ogni giorno…”, “mi consultava spesso…”’. Questa nostalgia era un’altra delle dimensioni che il carisma di Agnelli produceva, far sentire tanti collaboratori, pur non di primo piano, parte di un team, una squadra, un gruppo, con l’effetto che il tempo poi dilata.

Quando, nel 2002, l’Avvocato decise di lasciare la propria, splendida, collezione di capolavori alla città di Torino, al Lingotto, mi fece chiamare da uno dei suoi più fidi collaboratori, il gentleman e partigiano ragazzo in Langa Gianluigi Gabetti, “L’Avvocato vuole che tu scriva la prefazione al catalogo della collezione, buttala giù e mandala”. La mia cultura di storia e critica dell’arte si riduce agli esami con la professoressa Silvana Riccobono al liceo e con i corsi universitari con il leggendario critico Maurizio Calvesi, c’erano legioni di firme con più rango di me, ma l’Avvocato e Gianluigi sapevano che stavo per lasciare Torino e la condirezione de La Stampa con il mio compagno di gioventù Marcello Sorgi, per tornare a New York e al Corriere della Sera, e volevano darmi un ricordo. Controproposi allora un colloquio, Agnelli accettò e vennero giorni felici e da ricordare. Nello studiolo, governato dall’impeccabile maggiordomo Brunetto, si accumulavano i capolavori, e nel narrare perché se ne era innamorato, l’Avvocato mi diceva “mi passi il Picasso…”, “se mette il Modigliani in controluce…” e io alzavo terrorizzato quelle tele temendo disastrI.

Il colloquio è poi finito, i professori Riccobono e Calvesi ne sarebbero stati fieri, nelle discussioni dei critici, con il titolo “Il piacere dell’arte” e, a sorpresa, l’Avvocato indica che “Forse l’architettura è l’arte che preferisco…contiene tutta la vita, è la perfetta armonia di estetica ed esistenza, e però possiede tutte le contraddizioni dell’estetica e dell’esistenza”. Sognava che Carlo Scarpa, il maestro del Museo di Palazzo Abatellis a Palermo, curasse la Pinacoteca, poi l’incarico passò a Renzo Piano, ma di quei giorni, nella mia memoria resta un aneddoto personale, sul quale ho spesso meditato. L’Avvocato mi raccontava di giornate in apparenza spensierate, mare, sci, tuffi, montagna, per poi finire con la visita a una galleria d’arte solo per scoprire che quelle forme, i colori, apparivano spenti, smorti, senza vita. In altre occasioni invece ricordava lunghe e tediose sessioni sui budget, i crudi numeri dell’industria da cui dipendevano i destini dell’azienda e dei lavoratori, che metteva a dura prova la sua impazienza con i burocrati. Alla fine però, pregando in tarda serata un gallerista di aprirgli le sue sale fuori orario, vedeva schiudersi l’arte con potenza magnifica: era, spiegava, il senso di avere fatto il proprio dovere che rendeva acuto lo sguardo altrimenti opaco. Il lavoro ci rende capaci di valutare la bellezza, bellezza e creatività “il solo vero valore aggiunto della vita, capace di comprendere tutti gli altri”.

Il 12 marzo ricorre il centenario della nascita dell’Avvocato, il nipote ed erede, da Fiat a Stellantis, John Elkann lo ha ricordato in un bel colloquio con il direttore del “suo” giornale La Stampa, Massimo Giannini. Ed è per me emozionante vedere come la Storia accetti e dipinga una persona che ho conosciuto viva, è stato mio dirigente e ha seguito con affetto le vicende della mia famiglia. Il secolo dell’Avvocato è scandito, per paradosso, in contemporanea al secolo italiano. Come sempre, non riusciamo a storicizzare il nostro passato, a vederne luci e ombre insieme, a comprenderne con umanità glorie, sconfitte, errori, riscatti, ansie, progetti. L’Avvocato non attinge ancora nel nostro paese alla sua dimensione piena, sincera, resta idolatrato o spettegolato, come in vita, due atteggiamenti cui opponeva, imperterrito, il suo più gelido sorriso. Sono i suoi familiari stessi a preferire invece la narrazione schietta della Storia, nel documentario di Hooker, come nell’intervista di Elkann, che ricorda come “l’impazienza” di Agnelli gli sia costata molte pene, nella vita personale e pubblica.

Una volta chiesi all’Avvocato cosa avrebbe voluto fare nella vita se non fosse stato l’erede del Trono di Spade Fiat e mi rispose al brucio, senza pensare “Il giornalista”. Stupito dissi “Perché?” e lui spiegò “Perché è un mestiere che permette di soddisfare ogni curiosità”.

La curiosità per la vita era la chiave di azione dell’Avvocato. Quando seppe che un giovane cronista de La Stampa aveva servito nella Legione Straniera volle subito incontrarlo, con Ciccio La Licata parlava con il giudice Falcone, amava dialogare con l’ultimo leader sovietico Gorbaciov, che portò sorridendo a un esclusivo circolo torinese sorridendo “Inorridiranno, un comunista tra di noi!”. Ma era curiosità vera, non effimera. Quando decise di aprire l’intero gruppo al digitale, vent’anni fa, chiamando a capo del progetto un John Elkann ancora studente di Ingegneria al Politecnico di Torino, Paolo Ceretti al management e Nino Olivotto alla tecnologia (io lavoravo ai contenuti), gli preparammo una copia web del format, pre wi fi, con le varie home page delle aziende, Fiat, Iveco, Ferrari, Juventus, La Stampa, che si aprivano una dietro l’altra. Era l’alba del web in Italia, ne parlò a Montanelli che rimase affascinato e gli chiese di vederla. Ripetemmo dunque l’esperimento a Milano da Indro, che chiuse il mio portatile con un colpo di mano secco “Magnifica diavoleria, mi hai fatto vedere il futuro” e c’era nella sua voce rimpianto: che bei twitter, del resto, sarebbero stati i Controcorrente!

Ci sono ricordi sorridenti, la telefonata che mi fece il 5 maggio del 2002, non appena la Juventus superò l’Inter in classifica, sopportai in silenzio poi dissi “Ma queste battute le pubblichiamo come intervista” e accettò. L’indomani arrivai in redazione con la cravatta nerazzurra regalo di Massimo Moratti, glielo dissero subito e richiamò apprezzando “Bravo, si è portato bene”.

Portarsi bene era per lui non solo codice morale e di stile, ma anche il solo riparo contro le disfatte che la vita infliggeva. Quando il figlio Edoardo si uccise, saltando da un ponte a strapiombo su un abisso in Piemonte, volle recarsi di persona sul luogo della tragedia, lasciando al giornale piena libertà di cronaca. A Torino si disse “L’Avvocato regge benissimo”, ma in realtà Gianni Agnelli venne trapassato dall’evento e solo chi gli stava davvero vicino, i familiari prossimi, sa quanto. A me chiese sempre più spesso dei miei figli, e quando volli tornare a New York da loro mi disse “Era l’accordo fatto con lei e con il Corriere quando venne a Torino, va rispettato da tutti”. Vale la pena di ristabilire la verità su questo episodio, che illustra la qualità umana dell’Avvocato e di Gabetti. Nella seconda metà degli anni ’90 mi avevano chiesto di lavorare a Torino, ma i figli eran piccoli e dissi No grazie. Nel ’98 tornarono alla carica, con un patto d’onore col Corriere, tre anni a Torino per la svolta digitale del giornale e del gruppo, poi sarei tornato a New York. Tutti d’accordo, Lingotto e Solferino. Allo scadere dei tre anni ci fu la tragedia 11 settembre e l’attacco agli Usa, andai a scrivere dei reportage, con l’avvocato a chiedere dettagli -lo colpì la rivolta sul quarto aereo delle stragi, UA 93 con i passeggeri che attaccano i terroristi e precipitano in Pennsylvania morendo, ma salvando il Parlamento dalla distruzione- e al quarto anno risalii a Villa Frescot tra i cani husky bellissimi e ferocissimi che riempievano di graffi le mani “Avvocato, solo il servizio militare ai tempo dello zar durava 30 anni…” rise e esclamò “Pacta sunt servanda, torni a New York come d’accordo”.

Nel frattempo avevamo viaggiato in aereo con Kissinger, nell’intervista io avevo ricordato anche le critiche rivolte all’ex Segretario di Stato Usa sul golpe in Cile, i bombardamenti in Cambogia, ma l’Avvocato mi disse imperterrito “Gliela traduca” e “Henry” ascoltò impassibile, aprendo poi un suo sacchetto da picnic per il lunch “Gianni, so che non servi lunch a bordo!”.

Quando lesse il manoscritto del mio libro “Principe delle Nuvole’, dedicato alla strategia, l’Avvocato mi rimproverò “Manca la Strategia del Pazzo”. Avevo studiato Sun Tzu e Clausewitz, Douhet e Liddell Hart ma il Pazzo non lo conoscevo; “Quando mi diede l’ultima lezione di scherma, il mio maestro alla Scuola di Cavalleria a Pinerolo, nel 1940, mi disse “Ora le ho insegnato tutto, sa parare qualsiasi affondo. Deve solo temere la Strategia del Pazzo, l’attacco di chi, pur di farle un graffio, rischia la vita. È la più difficile da prevedere”. La scherma infatti, come la politica, il business, gli affari, il calcio, è gioco di costi e benefici, si calcola quanto l’avversario sia disposto a rischiare per colpirci e si deduce come anticiparne, o smussarne, l’azione. Ma se lo schema razionale viene ribaltato, allora l’analisi fredda non basta più, servono le emozioni.

L’Avvocato pagò duri prezzi allo status quo italiano di quegli anni, alla sua carenza di empatia ed emozioni, passioni e slanci, dal banchiere Cuccia al manager Romiti, un pezzo di classe dirigente che detestava l’innovazione internazionale, dalla Olivetti all’Alfa Romeo, e si illudeva che il paese potesse esistere all’infinito fra cerimonie bizantine di pochi adepti. A 18 anni Agnelli era stato invece in America, e si era vaccinato per sempre contro il provincialismo, “Quando presenterà nuovi progetti -ammoniva- le diranno “Non si può fare, non abbiamo mai fatto così”, lei insista e quando riuscirà a farcela le diranno, “Abbiamo ritrovato i disegni originali: s’era sempre fatto così!”. Nei giornali lanciò direttori aperti al mondo, Arrigo Levi, che difese dal dittatore libico Gheddafi, Alberto Ronchey, Giorgio Fattori, Gaetano Scardocchia, Ugo Stille e l’ultima volta che gli parlai, al telefono era a New York per un’estrema terapia, mi rimproverò “Scriva di più! Si batta di più! Non vede la deriva atlantica che allontana Europa e Usa? Una sciagura da evitare!”. Erano i giorni precedenti l’invasione dell’Iraq, il punto basso tra Washington e Bruxelles dal 1945 e, pur in fin di vita, il cruccio dell’Avvocato era la fine dell’Occidente, cui aveva dedicato ogni energia e che difendeva con il Council for Italy and the United States, fondato con David Rockefeller.

Cento anni dopo, l’Avvocato è affidato alla storia, finalmente libero dai cortigiani come dai nemici livorosi. Con le sue battute -quando Sergio Cofferati venne eletto segretario della Cgil disse “La penso come l’ex segretario della Cgil Luciano Lama, bravo ma peccato sia un chimico e non un meccanico!”-, il suo coraggio nel tenere duro perché democrazia e manifattura non sfiorissero in Italia, il suo impegno per i valori occidentali. Riuscì con il presidente Ciampi a imporre al premier Berlusconi l’ambasciatore Renato Ruggiero da Ministro degli Esteri di garanzia e, quando venne costretto alle dimissioni, se ne dolse pubblicamente. Non era un profeta, un santo, un uomo perfetto, né così avrebbe voluto essere ricordato. Era consapevole degli errori commessi ma li inseriva nell’ambito della realtà, fare il possibile, con i mezzi possibili. Il Financial Times, il Wall Streer Journal, the Economist per anni vaticinarono la prossima morte della Fiat, non senza qualche ironia contro “the Italians”. Che il gruppo sia vivo e il brand mondiale, che le testate provino a innovarsi in un difficile momento e che due atlantisti governino Washington e Roma, Joe Biden e Mario Draghi, sarebbe per lui soddisfazione viva.

Lavorare accanto ai personaggi storici è difficile, si tende a perderne le proporzioni o, peggio, a illudersi che il loro carisma si rifletta su di noi. Non è facile bilanciare, nel ricordo, la persona viva, l’uomo, la donna concreta, con l’immagine che il futuro perpetua. A un secolo dalla nascita però, fra successi, tormenti, tragedie e rinascite, l’epica dell’Avvocato è viva e il suo impegno ammirevole. Mancano il suo sguardo, la visione, la curiosità, la generosità che lo spingevano a chiacchierare con un reporter qualunque come me: per questo sono oggi molto contento che uno dei due sparuti necrologi con la parola “gratitudine”, e l’articolo di ricordo del Corriere, il 25 gennaio 2003, avessero la mia firma.