Come per i grandi artisti, non c’è successo maggiore per un’azienda che generare dal marchio una parola comune: tutti sappiamo cosa voglia dire «kafkiano» o «felliniano», e tutti sappiamo cosa significa «googlare», fare una ricerca online grazie al motore Google. Questa ubiquità rischia adesso di costar cara alla compagnia di Mountain View, dopo la decisione della commissario antitrust Ue Margrethe Vestager di multarla per 2,42 miliardi di euro per avere privilegiato i prodotti e servizi contro i concorrenti, nel rispondere alle richieste degli utenti. Google prevede di appellarsi, la battaglia legale potrebbe durare anni e coinvolgere l’intera infosfera, perché - nota Michael Carrier, giurista di Rutgers University -, la svolta che l’Europa vuol imporre «potrà in futuro applicarsi anche a Amazon, Facebook o chiunque offra ricerche per merci e transazioni». 

Il duello, come quello di una generazione or sono con Microsoft di Bill Gates, può ridefinire la politica di internet, mettendo in gioco il predominio americano nei servizi online e ponendo l’Ue al bivio sul futuro tecnologico: si crea finalmente l’agognata «Silicon Valley europea», o ci si rassegna a regolare, con multe o tariffe, l’innovazione Made in Usa? Il campo di battaglia è irto di ostacoli, perché il presidente Trump ha sì come motto «Rifare Grande l’America» proteggendone il business, ma considera Google troppo amica del detestato predecessore Obama. Anche gli Usa, via la Federal Trade Commission, avevano messo a giudizio Google sul tema offerta servizi, salvo poi accettare i mutamenti al motore di ricerca proposti dalla compagnia. Un analogo concordato è invece fallito in Europa e contro Google si sono mosse risolute anche le compagnie americane che ne temono il monopolio. Non sarà dunque facile ridurre la vicenda a «America high tech contro Europa che devolverà metà della multa in sussidi all’agricoltura». 

Google, gelosa dell’immagine di compagnia socialmente responsabile con il motto «non far del male», è stretta, come Apple, dalle regole antitrust europee, e fronteggia, con i rivali di Facebook, l’insidia fake news, i contenuti falsi prodotti su scala industriale da nazioni o lobby di potere, per inquinare e indirizzare libero dibattito e informazione aperta, vedi l’ingerenza russa nelle elezioni di Usa e Francia. Facebook, già multata dall’Ue, 122 milioni di euro per informazioni irregolari sul servizio sms WhatsApp, ha provato a difendersi con il fondatore Zuckerberg, osservando che «meno dell’1% dei nostri contenuti è falso» ma ha così messo in evidenza la trappola che angustia i giganti web. Può darsi che sia solo l’1%, ma chi non starebbe alla larga da una scatola di cento cioccolatini, sapendo che «solo» uno è farcito con arsenico letale? È il dubbio a rendere scettici e cittadini, e a persuadere Jeff Bezos, padre di Amazon, ad investire nello storico quotidiano Washington Post, oggi il più avanzato nella convergenza carta-digitale, mentre News Corp, editore del Wall Street Journal, è tra i primi a pressare la Vestager contro Google, non per i servizi online ma per l’uso dei propri articoli online. 

La crisi della pubblicità sul web - anticipata dai migliori analisti media, purtroppo inascoltati - alza la pressione sul motore di ricerca più popolare, e gli accordi siglati con gli editori tradizionali, da Parigi a Roma, come il progetto Dni per l’innovazione media, se hanno smorzato le diffidenze reciproche, non le hanno dissolte. Da sempre Facebook, Amazon e Google negano di essere «media companies», preferendo definirsi network di servizi e informazioni, non «content provider». Ma per i giovani Facebook è il primo vettore di notizie, l’algoritmo di Google distribuisce gli utenti secondo gusti e idee in aree omogenee, Amazon, consigliando i libri acquistati da chi sceglie i nostri stessi titoli, orienta il mercato editoriale più delle recensioni di critici illustri. La filosofia della Vestager considera quindi Google protagonista dell’urbanistica web, rete che connette online il nostro tempo, una sorta di un monarca antico che controllava i valichi di montagna, permettendo alle merci col marchio reale di transitare e lasciando languire le altre sul ciglio della pista. Con questa nuova realtà Google, che ha trasformato con l’algoritmo di frequenza la rete da giungla caotica in giardino organizzato, dovrà fare i conti.  

I dirigenti ribattono in un loro blog che l’offerta digitale è ormai ampia e la multa della Vestager riguarda un passato superato. Potrebbe non bastare. Il brand fondato da Sergey Brin e Larry Page ha sempre brillato nell’evoluzione, per esempio investendo capitale e lavoro nell’Intelligenza Artificiale. Si tratta ora di adattarsi a un mondo dove, come osserva il filosofo di Oxford Luciano Floridi, «non esiste più alcun confine online-offline».