Nell'intervista al portale Democratica Gianni Riotta spiega come il Data Journalism può essere l'antidoto al dilagare delle fake news.

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“La libertà di espressione è garantita dalle regole, dall’articolo 21 nella nostra Costituzione o dal Primo emendamento negli Stati Uniti, ma questo non significa che puoi scrivere il falso”.
A parlare con Democratica è Gianni Riotta, già direttore del Tg1 e de Il Sole 24 Ore, oggi editorialista de La Stampa e visiting professor alla Princeton University, ma soprattutto studioso e appassionato di Big Data Journalism.

Sei stato tra i primi, anni fa, a lanciare in Italia il problema fake news.
Sì. Il primo intervento che abbiamo fatto è stato con Il Sole 24 ore nel 2010 con l’inchiesta ‘Il lato oscuro della rete’, un tentativo di dire: badate che non tutto quello che c’è su Internet luccica, che c’è un lato oscuro, appunto, dal populismo alle notizie false. L’inchiesta fu accolta con violenza, perché c’era chi diceva che la rete era casta e pura e metterla in discussione serviva solo a togliere libertà. Evidentemente allora certi ragionamenti ancora non andavano di moda.

Eppure ancora oggi, nonostante non si parli d’altro, c’è chi mette in guardia contro il pericolo del ‘bavaglio’ alla rete. A loro cosa rispondi?
La libertà di espressione è garantita e nessuno la mette in discussione, ma la libertà non significa che si possa dire il falso. Quello che la gente non vede è che il problema delle fake news non è il ragazzino nel garage di casa sua o all’Università che gioca con la rete; la verità è che ci sono dei grandi Paesi e delle lobby potentissime che gestiscono il falso.

Quale può essere secondo te una soluzione in grado di tenere insieme il diritto a un’informazione corretta e la libertà di espressione?
Sia chiaro, non stiamo dicendo di togliere la parola a un giovane blogger, ma è giusto o no sapere, ad esempio, di chi è la proprietà dei grandi siti di informazione? La prima questione è la trasparenza delle multinazionali: chi controlla i dati di Facebook, Google, Amazon? Prima di tassarli è necessario capire come organizzano i nostri dati attraverso gli algoritmi. Ma serve anche trasparenza nell’informazione online. Oggi non sappiamo di chi è la proprietà dei grandi siti che fanno informazione, ad esempio del blog di Grillo, uno dei più grandi in Europa, non sappiamo di chi è, quanto guadagna in pubblicità, non conosciamo la sede legale.

Dunque secondo te una legge è necessaria?
Anche, ma la medicina migliore è la trasparenza. Oggi, anche se riconosco una fake news e la tolgo da un sito, questa verrà spostata e comparirà uguale da un’altra parte. Per combattere le notizie false dobbiamo fare due cose: rimettere fiducia tra l’opinione pubblica e le elite, e castigare chi le diffonde. Come? Un esempio è il lavoro di Andrea Stroppa, cioè individuando i soggetti. Certo va bene anche una legge: nel ’74 la riforma dell’editoria impose ai giornali di pubblicare bilanci e proprietà, ed è questo che oggi non sappiamo dei grandi siti di informazione.

Ma qual è per te il vero scopo? Economico o di destabilizzazione?
Google e Facebook non hanno alcun disegno politico. Zuckerberg ha creato Facebook per fissare appuntamenti tra amici e non perché fosse un luogo politico, così come Twitter, nelle intenzioni di chi l’ha creato, era tutto meno che un luogo giornalistico, come poi è diventato. Il boom politico che c’è stato non era stato per nulla presagito da chi ha creato i social network, dunque l’idea che siano loro ad avere le soluzioni è sbagliata. La prima domanda deve essere: perché la gente ha voglia di fake news?

Già, perché?
È crollato il principio di autorità, ma non è successo a causa del web. Lo stesso principio era crollato già nel ’68 con la fabbrica e la scuola sotto accusa, o con il femminismo quando ad essere messa sotto accusa fu la famiglia, o ancora prima con Freud, quando a essere messa in discussione fu la morale millenaria. Quello che non avevamo previsto è che oggi mettiamo in discussione anche l’autorità che ci dice, ad esempio, di vaccinarti. E a proposito di vaccini, quello è un esempio straordinario: un genitore che per andare dietro a una fake news arriva a rischiare di far ammalare il proprio figlio ci fa capire il loro potere.

L’ultimo rapporto del Censis parla di un’Italia piena di rancore. Non credi che per combattere la ‘voglia’ di fake news si debba partire innanzitutto da lì?
Il primo rimedio deve certamente essere affrontare l’onda di risentimento e ignoranza, ma dobbiamo prendere atto che anche noi come giornali e intellettuali abbiamo le nostre colpe. Abbiamo parlato un linguaggio troppo astratto, non spiegando le cose e senza nessuna forma di ascolto. Detto questo, il rancore non è cresciuto solo in Italia: non c’è dubbio che il crollo del principio di autorità insieme alla crisi economica creano il mercato delle fake news, ma dire che bisogna prima combattere il risentimento e poi la falsa informazione è sbagliato: il piccolo spaccio nasce dal degrado, ma mentre lavoro sulle cause non smetto di combattere il piccolo spaccio.

Ti stai occupando di Big Data e data journalism, è da lì che si può ricostruire una nuova credibilità delle informazioni?
I dati non risolvono i problemi, ti danno una fotografia, e gli stessi numeri possono dare origine a narrative diverse. Compito degli analisti seri è dare le migliori narrative possibili a partire dai dati, combattendo le informazioni false e spiegando le cose con pazienza. Ma non c’è dubbio che se in futuro sopravvivrà una forma di giornalismo, sarà quella basata sui dati.

A proposito di Big Data, hai cominciato una nuova avventura con la start up Catchy.
Con Catchy abbiamo preso un finanziamento Google DNI per fare un programma contro le fake news chiamato Compass, che ha preso il sigillo di eccellenza dalla Ue. Adesso stiamo organizzando alla Luiss un DataLab che approfondirà queste tematiche.

In futuro saremo governati dai dati?
È difficile fare previsioni con il tasso di innovazione che c’è. Il problema sono gli algoritmi, che non sono un modo neutrale di organizzare la conoscenza e oggi sono scritti per lo più da uomini, bianchi e under 40. Far apprendere ai bambini fin da scuola rudimenti di programmazione, questa potrebbe essere la soluzione per veder crollare rapidamente il tasso di ignoranza.