«È il romanzo a me più caro, ma a differenza di Calvino non credo che si possa creare artificialmente un buon libro”

Nel 1975, Umberto Eco, 43 anni, pubblica in contemporanea per Bompiani e per Indiana University Press negli Usa il saggio Trattato di semiotica generale o A Theory of semiotics, manuale che ha l’ambizione di codificare una teoria generale della comunicazione, proprio nella stagione in cui «comunicare» diventa arte strategica centrale per politica, economia, cultura. Nella pagina iniziale, come dedica pone questo esergo da Pascal «Non mi si dica di non aver detto nulla di nuovo: nuova è la disposizione della materia». E disponendo in modo nuovo gli elementi del romanzo, mischiando fumetti e teologia, thriller e pamphlet politico, feuilleton dell’Ottocento e tecniche postmoderne, Eco pubblica nel 1980 il romanzo best seller Il nome della rosa, che – assicura l’ubiqua Wikipedia - ha venduto oltre 50 milioni di copie, tradotto in 40 lingue, uno dei 100 libri del ‘900 secondo Le Monde.

Eco è in giro per il lancio del suo romanzo Numero zero (Bompiani) in traduzione inglese, ma accetta di rispondere alle domande per la festa di Tuttolibri via mail in un inseguirsi di indirizzi, testi, interrogativi, risposte, ricordi, battute, varrebbe una volta la pubblicazione...

Qual è il romanzo di questi quattro decenni che ti è più caro?

«Se una notte d’inverno di Calvino. Tra l’altro, usciva nel 1979, stesso anno del mio Lector in fabula e chi lo confrontasse con Se una notte d’inverno, potrebbe pensare

che il mio libro fosse un commento teorico al romanzo di Calvino. Ma i due libri erano usciti quasi contemporanea- mente, nessuno di noi due sapeva che cosa l’altro stesse facendo, anche se eravamo evidentemente appassionati dallo stesso problema. Quando Calvino mi ha inviato il suo libro, doveva aver già ricevuto il mio, perché la sua dedica dice: “A Umberto, superior stabat lector, longeque inferior Italo Calvino”. Calvino si riferiva dunque al mio libro.

Mi rimane assai ambiguo quel “longeque inferior”, che può voler dire sia “a valle” che “di minore importanza”. Se “Lector” dovesse essere inteso de dicto, e quindi si riferisse al mio libro, allora dovremmo pensare o un atto di ironica modestia oppure alla scelta orgogliosa di appropriarsi del ruolo dell’agnello, lasciando al teorico quello del Lupo Cattivo. Se “Lector” va inteso de re, e allora si trattava di una affermazione di poetica, e Calvino voleva rendere omaggio al Lettore».

Che ricordo hai del 1975?

«Nel 1975 pubblicavo il Trattato di semiotica generale. Da allora tutto quello che ho scritto costituisce un ripensamento e una revisione di quel libro, sino a Kant e l’ornitorinco del 1997. Se vuoi sapere come e in che senso quelle riflessioni hanno influito sulla mia attività di narratore, che sarebbe iniziata negli annitra1978 e 1980, non so e non voglio rispondere.

Hanno risposto molti saggi altrui, io sto al balcone a osservare».

Grazie al «Nome della Rosa» si apre una stagione di traduzione di romanzi italiani nel mondo: ti ha mai ringraziato qualcuno dei colleghi?

«Qualcuno. Ma non in Italia».

Dopo il boom del romanzo ricevi tantissime offerte di lavoro in America, ma preferisci la tua casa di Milano e la cattedra al Dams di Bologna. Perché?

«Gli insegnamenti come visiting professor in America hanno avuto luogo prima del romanzo, dal 1969 in avanti. Dopo che il romanzo è uscito in traduzione inglese ho accettato solo un insegnamento alla Columbia University nel 1984. Gradivo queste parentesi perché invece dei trecento e passa studenti che avevo in Italia potevo lavorare solo con una ventina. Dopo il Nome della Rosa mi son trovato con trecento studenti anche in America, il che lì vuol dire leggere 300 papers, compiti e relazioni. Allora ho smesso di accettare dei corsi laggiù e vi sono andato per soggiorni più brevi. La tua domanda è però perché non mi sono trasferito definitivamente in America. Credevo di dover fare qualcosa nell’università italiana (ho creato i corsi di Comunicazione, il Master in Editoria e tante altre cose). In America è bello andare e venire, non star per sempre. Non fanno neppure un buon caffè espresso, tranne che al “Caffè Reggio Emilia” del Greenwich Village di New York».

Il romanzo esce due anni prima, il terrorismo italiano tocca l’acme con l’uccisione di Aldo Moro. Ho letto «Il nome della rosa» in bozza e mi parve subito un apologo della tolleranza, una condanna della violenza politica. Allora – ricordiamolo - atteggiamenti controcorrente.

«Non a caso inizio a scrivere il romanzo proprio nel 1978, l’anno di Moro. Ma all’inizio non c’era alcuna intenzione di legare il romanzo al tempo in cui scrivevo. Salvo che, nel corso delle mie varie ricerche, sono caduto sulle cronache di Fra Dolcino ed altri movimenti ereticali violenti, e ne sono stato così preso che ho deciso di posticipare l’epoca della vicenda, che avrebbe dovuto svolgersi nel XIII secolo, al XIV secolo, 1327. È solo in corso d’opera che alcune analogie sono emerse e ho scoperto, per esempio, che la moglie di Dolcino si chiamava Margherita come la moglie di Curcio, Margherita Cagol, nota con il nome di battaglia, “Mara”. Allora, senza forzare la mano, ho lasciato che il lettore potesse cogliere delle analogie, e fare le sue riflessioni, come hai fatto tu a suo tempo. I romanzi pensano un poco da soli, al di là della volontà dell’autore».

Sull’Espresso hai elogiato «Rai Storia», la tv che lavora sul passato. Salva tu adesso i libri dimenticati.

«Domanda atroce! Comunque consiglierei sempre di leggere o rileggere I Promessi Sposi di Manzoni, per i romanzi. Quanto alla saggistica ce ne sono molti da citare. Provo quasi a caso: La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz, Il mito asburgico di Claudio Magris, Mitologie di Roland Barthes e Saggi di linguistica generale di Roman Jakobson».

Ci saranno i libri tra 40 anni, o la carta è spacciata come i Rotoli del Mar Morto?

«Ho scritto con Jean-Claude Carrière Non sperate di liberarvi dei libri. Prova a leggere un testo che avevi salvato su un floppy disk qualche decina di anni fa...».

Nel 1967 Calvino prevede che i computer scriveranno romanzi, dicendosi felice dell’idea. Sei d’accordo?

«Per pochi euro puoi avere un programma che ti permette di costruire un racconto standard. Citami un libro costruito così che sia ricordato come un buon romanzo. Sarebbe come comperare la pizza surgelata».

I supermercati vendono miglia- ia di pizze surgelate ma anche tra i libri scritti da umani non ne mancano no? Umberto, ora sei nonno, quali libri per i tuoi ni- poti?

«Il dovere di un nonno è certamente suggerire libri ai nipoti. Tenterei come sto tentando di suggerire i libri che hanno contato per me, da Pinocchio a Guerra e pace. Ma un altro dovere di un nonno è stare a sentire i suggerimenti dei nipoti. Lo faccio già coi film. Io suggerisco “Ombre rosse” ma loro (in effetti per ora solo il più grande che ha 15 anni) mi rivelano altri film che non conoscevo».