Se i 5 Stelle arrivassero al governo, ministro dell’Economia del premier Di Maio sarebbe dunque il professore dell’Università sudafricana di Pretoria Lorenzo Fioramonti, autore del saggio «Presi per il Pil» (Asino d’Oro editore). Fioramonti è persuaso che sviluppo, crescita economica, il Pil per capirci, siano idoli nefasti e, tra spunti interessanti (tecnologia, ambiente, shared economy), decreta la fine di capitalismo e mercato, battendosi – secondo il Financial Times – «per un’utopia hippie». Il primo partito italiano, scelto da molti elettori di sinistra, abbandona la bandiera secolare del progresso economico, cara al Marx del «Manifesto» e dei «Grundrisse», con il capitalismo a liberare le forze bloccate della Storia e i lavoratori a ereditarne il ruolo di creatori della ricchezza. 

Oggi i partiti della sinistra storica, Germania, Francia, Spagna, Italia, Stati Uniti (nella versione dei democratici), Grecia e tanti altri Paesi, oscillano tra estinzione e opposizione, giusto perché l’idea di progresso, condivisa un tempo da comunisti rivoluzionari e socialisti riformisti, non persuade più gli elettori, scottati dalla crisi 2008 e diffidenti sulla tecnologia (che diranno i tassisti 5 Stelle, scoprendo che il professor Fioramonti imporrà loro il modello Uber?). E dove la sinistra non è scomparsa, è l’ala radicale ad alzare la voce, con il segretario militante Corbyn, a Londra, e il senatore socialista Sanders, a Washington: il partito democratico della California, lo Stato di Silicon Valley così ricco che, da indipendente, sarebbe nel G8, appoggia come candidato al Senato il pugnace militante Kevin de Leon, perché la senatrice veterana Feinstein non è «abbastanza anti Trump». 

Per la sinistra moderata, che ha governato con Clinton e Obama, Blair, Prodi, Renzi e Gentiloni, Mitterrand e Jospin, Schroeder, giorni aspri. Se scimmiotta i toni arrabbiati dei populisti, si dissangua. Se appare succube di Borse e mercati, stucca le famiglie penalizzate dalla crisi e irrita i giovani su ambiente, diritti, uguaglianza. L’incerta vigilia del voto italiano, Paese dove il benessere smarrito nel 2008 non è ancora recuperato, si gioca su questo dilemma. I nostalgici della sinistra alla Berlinguer cercano di esorcizzarlo con l’aura bonaria del presidente Grasso. Molti votano invece Grillo «contro» lo status quo, ignorando le vistose tracce di culture di destra sul sito animato da David Casaleggio. Chi resta nel centrosinistra di Renzi e Gentiloni rinvia il dibattito sul da farsi, consapevole che i tempi stringono. 

I conservatori, in Italia con Berlusconi, in America con Trump, in Germania con la Merkel, in Inghilterra con la May, pur situazioni assai diverse, sanno dribblare il malessere della sinistra grazie a una più pragmatica visione del mondo, che permette ai repubblicani moderati di tollerare i tweet del presidente Usa e ai democristiani bavaresi di sopportare la politica pro emigranti e pro Draghi-Bce della Merkel, in nome degli interessi comuni. 

La «terza via» che fu di Clinton, Blair e Prodi è ormai impopolare, denunciata negli atenei e nei talk show come «neoliberismo». Provare a resuscitarla è inutile, ricordarne i successi prematuro. La forza della «vecchia sinistra», lavoro, coalizione città, campagna, operai, intellettuali, sviluppo, tramonta con la fine delle «masse», protagoniste d’acciaio dei poster comunisti. Il XXI secolo è stagione di individui, digitale, app, non di masse ferree, ogni voto va conquistato da solo e, in questo, Grillo e Berlusconi son maestri, parlando alla folla in prima persona, uno per uno. 

Ci sono strumenti che l’arsenale della sinistra storica snobba, reddito di cittadinanza (slogan 5 Stelle, vero, ma studiato anche da John Tornhill, ex direttore del Financial Times…), economia innovativa delle tecnologie, grandi aziende alla vigilia di una rivoluzione produttiva (manifattura, energia, big tech, agroalimentare, trasporti, turismo), start up su cui investire, scuola e università da rinnovare, partendo da insegnanti e programmi, ambiente come risorsa, professioni che non esistono e da creare, dati come ricchezza. 

Se arrivasse davvero al posto di Padoan, che gli apparirà penso un algido tecnocrate del Pil, il professor Fioramonti scoprirebbe, nello spazio di un mattino come capitò al populista greco Varoufakis, quanto tanti elettori amino lo status quo e detestino le riforme che ci propone dal Sud Africa. Ma la sinistra, in Italia, in Europa, negli Usa, è attesa ad un esame di coscienza altrettanto radicale: o vive nel presente e per il futuro, o il passato, pur glorioso, la asfissierà.