Marxista fino all’ultimo, militante del Partito comunista inglese anche dopo le dimissioni di massa degli altri intellettuali per protesta contro le invasioni sovietiche a Budapest 1956 e Praga 1968, anti-israeliano radicale e persuaso che «l’Impero Americano» fosse più nefasto dell’«Impero Britannico», lo storico inglese Eric Hobsbawm, scomparso ieri a 95 anni, avrebbe potuto essere una delle tante figure di scontenti della sinistra internazionale.  
Invece era ospite nei talk-show tv d’America ed Europa, i suoi libri best seller popolari nelle classifiche e studiati anche a Cambridge, dove Hobsbawm era stato studente modello ma non aveva potuto insegnare, «surgelato dalla caccia alle streghe anticomunista soft d’Inghilterra», ricordava. Aveva passato la vita alla Birkbeck University of London, maestro di tre generazioni. I saggi sulle «Rivoluzioni borghesi 1789-1849» (Il Saggiatore), la trilogia «I ribelli», «I banditi», «I rivoluzionari» (Einaudi), un crescendo dialettico di «coscienza» marxista nella rivolta, sono apprezzati dall’accademia e divorati dai lettori, perché Hobsbawm analizza con anglosassone chiarezza e conclude con nettezza politica.  
 I volumi «Il secolo breve» e «Anni interessanti, autobiografia di uno storico» (Rizzoli) fanno di Hobsbawm una celebrità: per lui il Novecento è «breve», rinchiuso tra il 1914 che accende la I Guerra mondiale e il 1989, con il crollo del Muro di Berlino e la fine del comunismo. La fortuna dello slogan accompagna la notorietà dello storico, che appare in pubblico come nonno dolce e saggio, pronto a coccolare i nuovi movimenti di Occupy Wall Street e a vedere, finalmente, nella crisi finanziaria del 2008 l’agonia del capitalismo che, da Karl Marx in poi, la sinistra comunista attende invano. 
Dei riformisti, dei socialisti, dei comunisti «occidentali» Hobsbawm non ha stima. Può incontrarli a un premio o a un convegno, ma il radicale laburista Tony Benn è per lui un nemico, e i socialisti alla Blair, i democratici alla Clinton, perfino la Terza Via tentata dalla sinistra italiana al tempo del primo Ulivo sono detestati come «Thatcher in pantaloni». 
Nato ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei, cresciuto in Germania mentre Hitler prende il potere, orfano e riparato in Inghilterra da uno zio, Hobsbawm porta nella concezione politica e storica le cicatrici del tempo di ferro che ha vissuto. Per Israele ha parole aspre: «Non ho obblighi emotivi per un piccolo Stato-nazione militarista, culturalmente deludente, politicamente aggressivo che mi chiede solo solidarietà razziale». C’è in questo paragrafo tutto Hobsbawm, scrittura efficace e militante, oblò ideologico fisso. 
Storici conservatori e progressisti, Niall Ferguson e Francis Wheen, lo accusano di non avere analizzato i crimini politici di Stalin, e di non avere abbandonato il Pc neppure dopo il Rapporto Kruschev al XX Congresso del Pcus. Nella prosa brillantissima di Hobsbawm le invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia diventano dettagli minori, il patto Ribbentropp-Molotov tra Hitler e Stalin è ridotto a «episodio temporaneo del 1939-1941». Da queste critiche lo storico, che doveva il cognome a un errore anagrafico, si difendeva con ambigua eleganza e a chi gli chiedeva perché non avesse lasciato il partito dopo le denunce sui gulag replicava sorridendo: «I partiti comunisti non sono per romantici. Sono per il lavoro e l’organizzazione… Il segreto del partito leninista non è sognare la resistenza sulle barricate e nemmeno la teoria marxista. Si può condensare… nella “disciplina di partito”. Il fascino del partito è agire quando nessuno altro lo fa…». 
Non è una novità, già Brecht elogiava «i cento occhi del Partito», Robert Jordan l’eroe del romanzo «Per chi suona la campana» di Hemingway si sente spesso rimproverare dai comunisti come «romantico» e la stessa accusa farà il professore comunista Corradi al giovane liberal Johnny in apertura de «Il partigiano Johnny» di Fenoglio. 
Antifascista per generazione, Hobsbawm può essere «romantico» nell’amore per il jazz, cui dedica «La storia sociale del jazz», nei capelli lunghi, nel fascino da scrittore: ma la reticenza sullo stalinismo pesa anche sulle sue pagine più seducenti. Il nazismo, la Depressione del 1929, la miseria del Terzo mondo, giustificano per lui gli orrori di Mosca. Ristretto in questa camicia di forza ideologica, Hobsbawm può dunque vedere nel Novecento solo «il secolo breve» della guerra civile Capitalismo-Comunismo, senza riconoscerne la profondità infinita, da millennio, primo secolo nella storia in cui l’umanità abbandona il lavoro nei campi, le donne si liberano dalle case, le colonie dagli imperi, l’informazione è universale, dai mass ai personal media, la genetica del Dna dischiude il futuro della specie. C’è nel diario dal gulag della scrittrice russa Evgenia Ginzburg (Dalai) il racconto di una notte in cella, con una compagna comunista italiana, deportata senza più nome, che urla ma nessuno la ascolta, nessuno capisce la lingua in cui lamenta, come milioni di comunisti arrestati, la fede tradita nel partito e nell’Urss. Eric Hobsbawm avrebbe avuto pietà umana di lei, ma, da storico, nessun problema morale, o «romantico», a inquadrare quella donna, quel dolore, quelle grida in italiano senza ascolto nelle ferree necessità della Storia.