Il fungo atomico spaccato a metà non l’avevamo visto, le foto di Hiroshima cui siamo abituati noi figli della Guerra Fredda sono quelle riprese dall’alto, dall’aviazione americana. Ora un’istantanea trovata negli archivi della Scuola Elementare Honkawa, ad Hiroshima, mostra l’attacco dal suolo.  

In primo piano sembra già di scorgere la devastazione, il fungo che ha scandito con la sua brutalità gli anni della sfida Usa-Urss si è diviso in due tronconi velenosi, il «cappello» vola in alto a seminare fall-out radioattivo sul Giappone, il «gambo» precipita a terra a finire i superstiti all’esplosione. 

È il 6 agosto del 1945. La guerra in Europa è finita in primavera, ma il Giappone non capitola. Lo stato maggiore è persuaso che, in caso di resa, gli americani destituiranno l’imperatore Hirohito e introdurranno la repubblica, temono la rivoluzione comunista e, nel caos che regna mascherato da ferrea disciplina, sperano assurdamente nella mediazione del leader russo Stalin contro gli Alleati. Il nuovo presidente Truman, il leggendario F.D. Roosevelt è scomparso in aprile, legge i dati delle perdite durante gli attacchi alle isole del Pacifico, verso il Giappone. Iwo Jima, difesa dallo stoico generale Tadamichi Kuribayashi, è uno scoglio rispetto alle grandi isole giapponesi, eppure è costata agli americani 6.821 morti e 19.217 feriti, al Sol Levante 21.844 morti.  

Come racconta Kumiko Kakehashi nel saggio «Così triste cadere in battaglia» (Einaudi) e ricorda Clint Eastwood nel film «Lettere da Iwo Jima», Kuribayashi, un ufficiale elegante che aveva studiato a lungo in America e sapeva che la guerra era perduta, «troppo forte la potenza industriale Usa», disobbedisce agli ordini di caricare con valanghe umane suicide le spiagge dopo l’invasione, fortifica le grotte interne e rende un calvario l’occupazione. Se riprodotta in Giappone, la sua tattica terribile avrebbe prodotto secondo i calcoli americani un milione di morti Usa, 500.000 inglesi e 10 milioni tra i giapponesi. Secondo lo stato maggiore di Tokyo i morti sarebbero stati tre milioni tra gli Alleati, venti tra i giapponesi. 

Il fungo spezzato che vediamo nella tremula immagine riapparsa 68 anni dopo si lascia dietro – secondo le stime dello storico Antony Beevor nel suo recente saggio «The second world war» - centomila morti, con altre migliaia spenti nei mesi a seguire dalle radiazioni. Quarantotto ore dopo Stalin attacca il Giappone, puntando a conquiste territoriali. Gli Alleati hanno già chiesto, con il documento di Potsdam, la resa, ma i militari sono divisi tra intrighi e codice samurai di resistenza, impotenti ma arroganti. Il 9 agosto Truman ordina un secondo bombardamento, stavolta sulla città di Nagasaki: muoiono in 35.000.  

L’imperatore Hirohito, amante della poesia classica giapponese, dice basta e vuol comunicare, nell’arcaica lingua di Corte che alla radio nessuno comprenderà, come un bollettino letto in latino, la resa. Prima che ci riesca, il 15 agosto, il generale Hatanaka Kenji guida il Secondo Reggimento della Guardia a distruggere il testo registrato. Il colpo di stato fallisce per la reazione del Ciambellano Koichi Kido, Kenji fa harakiri, il suicidio rituale. 

Sessant’anni sono molti nella vita degli uomini, pochi per la storia, nulla per l’etica. Quando guardiamo la foto della scuola elementare Honkawa, pensiamo alla sorte del fotografo che la scattò, sentimenti di orrore e solidarietà ci assalgono per le altre vittime. Il fungo spezzato pesa sulla vita dei baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1966, Beatles, jeans, ’68, personal computer. Nel 1958 il poeta beat Gregory Corso scrive un poema le cui righe stesse formano il fungo nucleare «Bomba», «Tu Bomba, giocattolo dell’universo…». Scienziati occidentali - come il nostro Pontecorvo - fuggono a Mosca con l’alibi dell’«equilibrio atomico», i padri del fungo si dividono tra falchi alla Teller, colombe alla Oppenheimer, scienziati neutrali come Fermi. Alle Nazioni Unite Washington e Mosca spendono decenni in difficili accordi che impediscano nuove foto come quella ritrovata ieri.  

In una passeggiata nei boschi intorno a Ginevra i diplomatici Paul Nitze e Yuli Kvitsinsky si accordano, nel 1982, su un piano per ridurre le testate atomiche fino a zero. Reagan e Gorbaciov non accettano il patto radicale della «passeggiata nel bosco», ma la tensione nucleare decresce. «Tutto il mondo pensa che siamo andati vicini alla guerra atomica nei giorni della crisi di Cuba, nel 1962 - mi disse una volta il diplomatico americano McGeorge Bundy - in verità fu nel 1955, durante la crisi dimenticata per gli isolotti sperduti di Quemoy e Matsu, fuori Taiwan, che fummo davvero sull’orlo della nuova Hiroshima». Il comando della Marina suggerisce apertamente alla Casa Bianca di bombardare con testate nucleari la Cina, il presidente Eisenhower si oppone: aveva comandato la guerra in Europa, sapeva che il mondo sarebbe finito. 

Dalla guerra mondiale i Paesi sconfitti, Germania, Italia, Giappone, escono con costituzioni e psicologie pacifiste. Davanti ai morti di Hiroshima e Nagasaki ci impietosiamo, ma dimentichiamo il verso terribile del generale Kuribayashi, «Come è triste cadere in battaglia», che rigetta l’etica militaresca del «dulce et decorum est pro patria mori». Senza i due atroci funghi, i morti non si sarebbero contati in decine di migliaia ma in milioni. E il Giappone, ridotto a un deserto, sarebbe finito colonia per tutto il XX secolo. 

Riguardiamo dunque il fungo spezzato di Hiroshima. E lodiamo le generazioni che, tribolando, hanno impedito che un terzo venisse deflagrato in ostilità. Ma, guardando questa storica foto, non rivolgiamo lo sguardo solo al passato, album polveroso. Guardiamo alla frontiera atomica India-Pakistan, guardiamo all’Iran che prova a comprare l’uranio dai siti di Assad in Siria, per innescare la corsa atomica in Medio Oriente, con Israele. Mentre parliamo di crisi fiscale euro e dollaro, il fungo del XX secolo lancia la sua ombra velenosa sul XXI.