Sarà dunque Hillary o Trump? Chi dominerà le elezioni presidenziali americane del 2016, l’ex First Lady democratica Hillary Clinton, già senatrice e Segretario di Stato o il palazzinaro repubblicano dai capelli arancione, che mette il nome su grattacieli che non possiede neppure? Se guardate i sondaggi, sport pericoloso a 11 mesi dal voto di novembre insegna la Storia, Hillary Clinton dovrebbe, a mani basse, vincere le primarie contro l’anziano senatore del Vermont Bernie Sanders, unico socialista alla Camera Alta e poi frantumare Trump al voto nazionale, se mai il pittoresco candidato populista riuscisse a sfuggire alle tagliole che la direzione del Gop, Grand Old Party repubblicano, gli porrà sulla strada.  

Analisi e sondaggi  

Provate invece a ignorare i sondaggi e ragionare su cosa sta davvero accadendo in America, perché l’autunno più caldo della storia per l’atmosfera è rovente in politica. Malgrado le chances di Trump di vincere la Casa Bianca restino esili – il guru dei dati Nate Silver le calcola sotto 1/5, assai meno guardando agli elettori reali – la sua corsa ha già rivoluzionato il discorso politico americano, e le conseguenze si faranno sentire a lungo, ben oltre il giuramento del nuovo Presidente nel gennaio 2017. Trump ha urlato che non il Re è Nudo, ma l’Elettore Bianco, impiegato, operaio, pensionato, disoccupato, che da una generazione ormai riceve nulla in attenzione e sussidi economici, sia dai Presidenti repubblicani che democratici.  

Bill Clinton e il suo cervello economico Rubin avevano incoraggiato Wall Street. I tagli fiscali di Bush figlio hanno premiato i ceti abbienti e la sua politica estera aggressiva ha compiaciuto gli intellettuali conservatori. Obama ha difeso la base popolare democratica su salari minimi e riforma sanitaria e la sua politica estera, neutralista e attendista, è piaciuta nei campus universitari. Un impiegato o un tecnico bianchi hanno i salari reali fermi da anni, lo status sociale e le minoranze avvantaggiate, a scuola e sul lavoro, dalle corsie privilegiate «affirmative action». In prima pagina sul New York Times vanno inchieste sugli abusi della polizia o nelle forze armate, ma la vita dura dei bianchi impoveriti non ha ribalta sui media.  

Le due velocità  

Gli analisti si lasciano ipnotizzare dalla «horse race», la corsa dei candidati, e restano sordi al dibattito profondo che divide l’America. Il paese, polarizzato dal rancoroso web, si va separando, culturalmente e geograficamente, in due distinte regioni. Una, che affolla le coste atlantica e pacifica, progressista, internazionalista, liberal, cosmopolita e tecnologica, aperta alle nuove identità, gender, sesso, religione, che vota democratico. L’altra, accentrata nel continente, che viene finanziata dall’establishment economico repubblicano, ed è composta da ceto medio bianco, rurale, con ispanici cattolici conservatori, scettica sull’effetto serra, amante delle armi, religiosa. 

Reagan, Bush padre e figlio sono riusciti a tenere insieme in una coalizione operai, ceto medio, Wall Street e fondamentalisti cristiani, ma dal 2004 falliscono alla Casa Bianca, restando forti al Congresso perché i bianchi diventano minoranza tra gli elettori e i giovani scelgono i democratici. Quando gli under 35 decideranno di votare non solo alle presidenziali ogni quattro anni, ma anche per Camera e Senato al midterm, la faccia del paese muterà. 

Le strategie  

Rabbia e scontento hanno paralizzato la corsa di Jeb Bush, fermo al 7% ed era favorito, mentre il governatore Christie scommette sul New Hampshire e i due candidati ispanici, Rubio e Cruz, sperano nel declino di Trump. The Donald conta sulla sorpresa che ammutolisca gli esperti, e legge Silver: ogni attacco dei media ostili gli porta voti, paradosso che giornali e tv tradizionali non comprendono e che, da noi, Berlusconi ha utilizzato per 20 anni. 

Lo stato maggiore del partito cerca di fermarlo negandogli accesso ai Big Data, che permettono di fare campagna elettorale solo tra i cittadini che tendono a votare repubblicano, come i democratici hanno escluso Sanders – citando un pirata informatico a lui legato – dalla banca dati cui invece la Clinton ha pieno accesso. Ricordate: chi controlla i dati ha un vantaggio, potendo concentrare energie e fondi sulla base da mobilitare, senza sprecarli altrove. Grazie a questa tecnica Obama ha vinto due volte, 2008 e 2012. 

Se Trump è stoppato e Clinton, o uno dei candidati «normali» Gop, arriva a Washington, l’agenda è già fissata: il cerebrale presidente Obama si lascia dietro un paese diviso, il gelo tra Casa Bianca e Congresso, nessuna strategia nella guerra al terrorismo, il fascino intellettuale di una personalità che voleva il dialogo tra Usa, arabi, Cina, alleati europei e ha fallito. Ma la disuguaglianza crescente deve essere affrontata subito, in un’economia che penalizza chi non ha laurea o specializzazione. Il nuovo presidente dovrà soprattutto riuscire dove Reagan e Clinton brillarono, restituire al paese un senso di unità, di comunità, di identità in un mondo globale e ostile.