«La politica americana è spesso stata un’arena occupata da menti folli di rabbia. Lo chiamo stile paranoico perché evoca bene il senso diffuso di rovente esagerazione, sospetto e fantasia cospiratoria»: così, in un classico articolo del 1964 sulla rivista «Harper’s», lo studioso Richard Hofstadter condensa, con fortunato slogan, «Lo stile paranoico nella politica americana». 

Hofstadter elenca le occasioni in cui la repubblica si lascia sedurre dal rauco grido dei demagoghi, la caccia alle streghe anticomunista del senatore McCarthy Anni 50, il Populist Party 1895 «l’Europa complotta con l’oro contro gli Usa!», mentre, nel 1855, i giornali in Texas sono certi «I monarchi europei e il Papa di Roma organizzano in segreto la rovina americana». Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli elettori temono che Massoni, Chiesa cattolica, Gesuiti, Mormoni, siano curvi a tramare contro Washington. Per anni il Ku Klux Klan razzista brucia le sue croci minacciose mentre gli incappucciati a cavallo linciano neri. Più tardi la John Birch Society, gruppo di ultradestra che prendeva il nome da un missionario ucciso dai cinesi nel 1945, organizza cellule clandestine contro l’invasione russa. Lee Oswald, assassino del presidente Kennedy, già voleva uccidere uno dei leader della Birch Society. L’asso dell’aviazione Lindbergh e Joseph Kennedy, fondatore della dinastia, diffidano degli ebrei e ammirano Hitler. Il presidente Nixon era così paranoico da far spiare illegalmente i democratici nell’elezione 1972 che vinse a valanga, 49 stati a 1! 

L’idea che la storia americana sia pervertita da agenti foschi è antica, ma le elezioni presidenziali 2016 hanno aperto un capitolo nuovo, inquietante, della saga. Alla radio del prete antisemita e anti F. D. Roosevelt padre Coughlin (1881-1979), succedono adesso hackers dalla Russia, lobby che vogliono bloccare Sanders, Trump o Hillary. L’Fbi, con il suo capo Comey, prima passa per lacchè dei democratici poi dei repubblicani, in un delirio di impotenza complottista, inchiesta su Clinton sì o no?, che sporca il dibattito democratico e semina una zizzania di odio che non avvizzisce mai. 

La piaga nell’anima americana è profonda, aperta, infetta, e dubito che il prossimo presidente possa lenirla. Il grido della Convenzione di Cleveland «Arrestate Hillary!», gli insulti di Trump al padre di un eroe caduto in guerra solo perché musulmano, Trump che irride un cronista malato, insulta i messicani, la sua voce dai nastri «le donne devi acchiapparle dalla …» pesano sulle coscienze. Ma non dimenticate l’effetto maligno che, sull’altra metà degli elettori, hanno silenzi e bugie di Clinton sulle email abusivamente diffuse da un server privato, i suoi cambi di idea opportunisti - sul libero commercio, ad esempio - per trovare voti a sinistra, la volgarità dell’ex deputato democratico Weiner che fa il bulletto con le teenager al cellulare, mentre la moglie Huma, braccio destro di Hillary, scarica sullo stesso telefonino, tra immagini porno, le mail riservate della candidata. Donna Brazile, pomposa e arrogante ex capo della campagna di Al Gore 2000 (fu lei a mandarlo allo sbaraglio, persuadendolo a fare il populista e escludere Bill Clinton dai comizi) che, pagata come commentatrice dalla rete tv Cnn, manda di nascosto le domande che faranno alla Hillary, per poi mendicare in cambio del servizietto una prebenda, che vergogna è? 

 

Francis Scott Fitzgerald scriveva che a stroncare il romantico Grande Gatsby «fu la polvere sporca che fluttuava sulla scia dei suoi sogni»: ecco, in questi mesi una «polvere sporca» ha inquinato i «sogni» dell’intero Paese. Che Hillary Clinton non sia solo la rapace paladina di Goldman Sachs, o la claudicante anziana stroncata dalla polmonite, ma oggi possa essere eletta prima donna presidente degli Stati Uniti è conquista storica che il tanfo da talk show e la schiuma da web finiscono per oscurare. Una donna presidente, la sola dal 1776, dovrebbe comunque unire il Paese in celebrazione, invece i repubblicani già affilano i coltelli per l’impeachment e la sinistra sanderista sbuffa scontenta. 

Non confondete, come fanno i falchi spiumati del presidente G.W. Bush, la crassa volgarità del Trimalcione Trump con le profonde radici di rabbia che spaccano il partito repubblicano e che, anche se sconfitte, lo agiteranno per anni. Nel 1965, nel Sud dell’America, bianchi e neri non potevano ancora usare gli stessi bagni. Nel 2008 l’America ha eletto un presidente afroamericano con il mondo ammirato dal progresso straordinario. Ma la Storia procede in fila indiana, quando Obama arriva alla Casa Bianca milioni di neri restano staccati indietro, e con loro altrettanti bianchi terrorizzati che il Paese diventi multietnico, transgender, diverso dal villaggio bonario da Happy Days che guardavano da bambini in tv. Queste retrovie dimenticate si vendicano nel 2016. Trump non è un fascista, come crede una destra colta ma narcisista, è un demagogo che offre alla rabbia reale di chi ha ceduto il posto a un robot, vede la pensione sfumare, teme per la fede religiosa, bersagli fittizi su cui sfogare frustrazioni, Messicani, Donne, Europei, Minoranze, Banche, Fisco. 

Nel XVII secolo i Padri Fondatori concepirono la figura del Presidente come un Re Democratico, con sigillo e inno, un patriarca che unisse il Paese al di là della politica chiassosa. Quel sogno è scomparso. Nel XXI secolo il Presidente è il capo della gang rivale, da sgarrettare non appena abbassa la guardia.