Ogni studente di politica estera impara presto la massima tragica «Afghanistan, cimitero degli Imperi», perché tra quelle giogaie innevate, valli pietrose e villaggi remoti, fierissime popolazioni di guerrieri hanno respinto nei secoli invasioni di Persiani, Greci, Arabi, Turchi, Mongoli, Inglesi e Russi. Ma ogni mito, prima o poi, perde il magico potere: così l’annuncio che dopo 12 anni di guerra tra la Nato e i talebani si avvia finalmente un negoziato di pace a Kabul, non risolverà d’incanto la difficile situazione del Paese, ma già esorcizza lo spettro del passato. Nessun «Impero», stavolta, verrà sepolto in Afghanistan. 

Per oltre due anni, con riserbo e senza riflettori, intorno a Doha, in Qatar, ambasciatori occidentali e arabi ed emissari dei capi talebani hanno intessuto un difficilissimo negoziato, provando a chiudere la guerra aperta con l’invasione Nato del 2001 a caccia di Osama bin Laden, quando, per la prima volta, la storica alleanza della Guerra Fredda si batté in campo. Il portavoce talebano Mohammed Naim anticipa il primo passo, limitare all’Afghanistan le pretese di influenza degli estremisti religiosi, dichiarandosi neutrali negli altri Paesi.  

Mai più Kabul come base organizzativa per i terroristi di al Qaeda. 

Come si è arrivati all’annuncio del negoziato e che previsioni si possono fare ora sul suo andamento? Il presidente Obama e gli alleati occidentali hanno annunciato l’intenzione di lasciare Kabul dal 2014, e una gigantesca ritirata di uomini e mezzi è già in corso sulle tortuose strade di montagna, forse la maggiore impresa di logistica militare dallo sbarco in Normandia a oggi. Osservatori parrucconi e cancellerie inamidate ripetono il mantra «Cimitero degli imperi», ma i talebani, feroci realisti, sanno di non avere vinto, stavolta, la guerra. Malgrado le forze regolari dell’esercito del presidente Hamid Karzai non siano ancora né perfettamente addestrate né perfettamente equipaggiate, e malgrado nei loro ranghi si nascondano talpe fondamentaliste, tuttavia i militari, alleati a milizie locali, sapranno contestare ai talebani la rioccupazione del Paese. A chi ha già dimenticato, val la pena di ricordare che nella Kabul talebana pre 2001, le donne sospettate di adulterio venivano fucilate in pubblico allo stadio con un colpo alla nuca, le bambine scacciate da scuola o accecate con l’acido, rinchiuse in casa con madri e nonne, i maschi obbligati a studiare nelle scuole islamiche ortodosse, le madrasse, o reclutati a forza. Perfino far volare un aquilone, o ascoltare la radio, erano mancanze punite con crudeltà. 

Nessuno deve illudersi che il cammino verso la pace, o almeno una forma di tregua incruenta, sia facile, breve, senza tormentati periodi di ritorno alle ostilità. Come sempre nella loro storia, ogni volta che i talebani si sentiranno stretti all’angolo nel ring negoziale, la parola tornerà alle armi. Inoltre non partecipano ancora ai colloqui di pace i Tehreek-e-Taliban, talebani pakistani, alleati ma indipendenti dagli afghani. Il portavoce Ihsanullah Ihsabsaid assicura però che il movimento si asterrà dai raid oltre confine, pur non accettando a priori un eventuale accordo di pace. La tensione in Pakistan, l’influenza dei servizi segreti Isi, non permettono ottimismo, ma almeno non si è partiti con un «no».  

Alla fine saranno i delegati afghani, legati a Karzai o ai talebani, a decidere se dar pace al loro tormentato Paese, o se invece anche figli e nipoti dovranno battersi, e morire, senza costrutto. Se oggi esiste una sia pur esile fiammella di pace nel buio di guerra a Kabul, il merito va ai cittadini afghani, uomini e donne che si sono battuti, in condizioni orrende, perché il loro Paese non finisse cimitero non «di imperi», ma di diritti umani.  

Con loro meritano oggi un elogio i militari della coalizione internazionale che per anni, spesso isolati nei Paesi d’origine, si son battuti non per il petrolio o il colonialismo, ma per aiutare un Paese lontano. I cinici parlano, dal 2001, di «interessi occulti», del misterioso «oleodotto» che la Nato avrebbe dovuto costruire a Kabul e che mai nessuno ha visto. Propaganda: la via della pace resta più lunga e accidentata di una pietraia sulle cime afghane, ma se non è sepolta per sempre, è merito anche dei militari «stranieri». Fra loro le forze armate italiane, uomini e donne che da 12 anni, pagando un prezzo alto in vite umane, ferite, mutilazioni e sofferenze, hanno alleviato la pena degli afghani più poveri, dando, col loro servizio contro la guerra talebana, senso nobile alla nostra Costituzione. Si sono opposti alla follia di «risolvere con le armi le controversie» afghane e internazionali. Da soldati, hanno interpretato l’inno pacifista di John Lennon «Give peace a chance», perché con il loro impegno hanno dato davvero una speranza alla pace.