Sorride Marzio Barbagli: «La storia dell’emigrazione in Italia è vicenda lunga, eh? Venivano da noi già nel 1440!». Lo studioso dell’Università di Bologna, che ha insegnato anche a Harvard e Stanford, è per un periodo di lavoro a San Francisco: «La California, con continui flussi migratori, è laboratorio perfetto per confrontare il caso italiano, dove i luoghi comuni confondono il dibattito. Tanti, per esempio, son persuasi che la crisi economica abbia fermato l’emigrazione, ma non è così. Sono arrivati ancora fino a mezzo milione di persone e il 1° gennaio 2014 erano censiti 4.922.000 stranieri. Si obietta: i Paesi del Nord Europa hanno percentuali di emigrazione più alte delle nostre, ma chi viene in Italia va a Nord e Centro, solo un terzo a Sud. Le regioni del Nord hanno più emigranti che, in media, la Germania». 

Come cambia la comunità degli emigranti nel XXI secolo? «Ricordo un mio ritorno dall’America, primi anni Ottanta. Improvvisamente vedo il centro di Bologna popolato da lavoratori stranieri. Allora gli emigranti venivano da tutto il mondo, un centinaio di Paesi. Oggi le prime dieci nazionalità raccolgono i due terzi dei nuovi arrivi, primo posto per rumeni, poi albanesi, marocchini - a lungo il gruppo più numeroso - al quarto i cinesi». 

Gli italiani usano dapprima l’odioso nomignolo «vu cumprà» per gli ambulanti sulle spiagge, poi arrivano la reazione della Lega Nord e l’opposta benevolenza di cattolici e sinistra. Adesso? «Nei talk show e sul web fa spesso capolino lo slogan “Gli stranieri ci rubano il lavoro!” È solo demagogia, nessuna ricerca prova che questa sia la preoccupazione degli italiani. Gli emigranti sono occupati in percentuale maggiore degli italiani perché accettano mansioni rifiutate dai nostri connazionali, nei campi, nella pesca, nell’edilizia, compresa quella irregolare e clandestina con molti infortuni, nell’assistenza agli anziani - le cosiddette badanti -, in altre umili occupazioni, lavapiatti, nelle stalle e allevamenti. Le prostitute di strade sono solo straniere, ma i clienti italiani. Chi non lavora, tra gli stranieri regolari, sono per lo più i familiari dei lavoratori, arrivati grazie al ricongiungimento familiare. Temo che le ansie degli italiani sull’emigrazione siano altre». 

Quali? «Criminalità e stato sociale. Una società debole come l’Italia vede la scuola, la sanità, i servizi di base scricchiolare, devono servire più persone mentre tagliamo risorse. Al pronto soccorso si vede una lunga fila di emigranti - per i quali la corsia d’emergenza è il solo accesso a un medico - e si torna a casa di malumore, come se l’attesa fosse colpa dei malati stranieri». 

Molti genitori al Nord lamentano classi sovraffollate e con bambini che arrivano con lingue diverse: «Ne parlava a lungo solo la Lega, ora il nostro sistema scolastico è sotto pressione. Presidi, professori, famiglie restano “friendly”, come si dice in California, pieni di buone intenzioni, suppliscono con energia, compassione ed entusiasmo alle carenze organizzative. Ma se poi si rallenta nell’apprendimento cominciano i dissapori». 

Lei fu il primo a dare i numeri record dei reati commessi da immigrati e vari colleghi se ne scandalizzarono: «Qualche snob si scandalizza ancora, non ne parlano nei dibattiti ma i record nei borseggi, rapine, furti, in casa o in strada, restano purtroppo appannaggio degli stranieri, con percentuali altissime. Nessuno va criminalizzato, con quasi cinque milioni di persone ovvio che trovi di tutto. Aumenta il malcontento quando la polizia procede ad arresti, quasi sempre di irregolari. I governi hanno provato ad approvare norme per espellere gli irregolari, soprattutto se delinquono, ma con scarsa efficacia». 

Trenta anni dopo la passeggiata a Bologna in cui ha scoperto il nuovo volto della sua città, cosa c’è invece di positivo? «Non ci sono ghetti in Italia. Guardi le metropoli Usa, gli emigranti vivono in quartieri tra di loro, da noi l’integrazione urbanistica è migliore, un sottovalutato passo positivo. L’eccezione sono i cinesi, che tendono a vivere in comunità più chiuse, e il Sud. Da Napoli a Palermo le città meridionali tendono a creare “aree” per gli emigranti molto più che il Nord. La nostra economia, le nostre famiglie, il nostro sistema pensionistico, le comunità, vivono ormai grazie al contributo di chi è venuto a lavorare da noi, con energia, cultura, tradizione. Per me un fatto benefico. Gli atti di razzismo, certo con gravi e dolorose vicende, son rimasti pochi, non si è creata una catena di odio». 

E neppure movimenti xenofobi o anti emigranti come Le Pen in Francia o Ukip in Gran Bretagna. La Lega Nord rialza i toni, ma a lungo ha parlato più di tassi che di confini: «Per la cultura socialista e cattolica lo straniero va accolto. La Chiesa ha avuto un ruolo importante. Quando in tv si vede arrivare un barcone affollato da disperati, tanti dimenticano che solo una minima frazione di ingressi nel nostro Paese arriva via mare. Gli altri passano la dogana in modo normale, Mare Nostrum non è una regola. Ma la sinistra ha parlato in modo sbagliato di “razzismo”. Avere timori, preoccupazioni non è razzismo: ci sono tensioni sbagliate, ma il Paese non ha ceduto». 

Lei ha lavorato in think tank che in California direbbero “liberal”: cosa la preoccupa in futuro? «La scuola. Se il governo non trova modi per far convivere tutti ci prepariamo guai. Noi non abbiamo avuto un’emigrazione negli anni di boom economico, ma in recessione. E se guarda al fondamentalismo in Inghilterra o alle rivolte urbane in Francia, è la seconda generazione, chi è nato da figli di emigranti, a creare problemi di integrazione. Un fenomeno appena iniziato da noi, e su cui i populisti speculeranno, temo».