C’è la leggenda e c’è la realtà. Nella leggenda, quando il leader sovietico Nikita Krusciov visita Hollywood nel 1959 chiede di incontrare Marilyn Monroe, senza il marito scrittore Arthur Miller, sospettato di essere comunista. La moglie di Krusciov, Nina, vuole invece girare per Los Angeles con Frank Sinatra, il cantante italoamericano rilutta, e tocca al prossimo presidente Usa, il suo amico John Kennedy, convincerlo. Nella realtà, Bruce Springsteen, Boss della nuova canzone nato come Sinatra in New Jersey, ama ripetere «Mia madre da bambino, quando la voce di Sinatra fluiva sulla strada da un bar pieno di fumo, juke box al massimo, mi diceva sottovoce “Ricordati, Sinatra come te è nato in New Jersey”».

TRA MITO E REALTÀ
Nel ricordare i cento anni dalla nascita di Frank Sinatra, 12 dicembre 1915 - 14 maggio 1998, è difficile separare mito e realtà di «The Voice», come si chiama da noi, «Ol’ Blue Eyes» in America: e conviene davvero farlo, o per capire l’artista che in 63 anni di spettacolo ha venduto 150 milioni di dischi, interpretando 2200 brani in 60 album, serve avventurarsi al confine della realtà, l’atmosfera da crooner, luci basse, voce perfetta, un whisky in mano, l’amore lontano?

Sinatra era italiano, italianissimo, per tutta la vita ricevette lettere dal nostro Paese di suoi parenti, veri o presunti, uno speciale Rai Storia ha ricordato la sua divertita reazione, dir sempre di sì, pur scettico della reale parentela. Hoboken sta dall’altra parte del fiume Hudson rispetto a Manhattan. Le luci di New York contro una landa grigia. Mamma Natalina Garaventa, soprannominata Dolly, veniva da Rossi di Lumarzo, Riviera ligure, papà Antonio da Lercara Friddi, gelido paesino siciliano sulle Madonie. Il nonno Francesco emigrò, lo raggiunse poi il figlio in terza classe, in fondo alla stiva, e nel giorno di San Valentino Antonio - a quel punto diventato Anthony - sposa l’innamorata a Jersey City e mette su casa a Hoboken.

IN FUGA DA LITTLE ITALY
Anni duri per gli italiani, sterrano le fondamenta a Manhattan, lavoro umile e pericoloso. Frank ha 16 anni quando, nel 1931, un gruppo di edili nostri connazionali alza a Rockefeller Center il primo albero di Natale, la Storia affida il loro ricordo, ogni anno, alle sue luci gloriose.

A Manhattan, nel 1929 anno della terribile crisi di Wall Street, arriva anche la famigliola Sinatra, trasferita in ferry a Little Italy, allora ancora dei nostri paisà e non inghiottita da Chinatown. Ci sono i caffè con le tazzine e la scorza di limone, ricordo di quando gli italiani sbarcavano esausti dalle navi e ricevevano per scaldarsi una tazza di caffè ripulita poi con mezzo limone, la pasta fresca, i provoloni, il vino nei fiaschi, ma a Frank il quartiere pittoresco sta stretto, vuol scappare al WNEW Dance Parade a cantare, e sperare che qualcuno ascolti le primordiali registrazioni, messe in onda alla radio via Rustic Cabin. Papà Anthony è furioso, ma sul palcoscenico la voce, lo swing e lo stile ironico di Frank furoreggiano, con il pubblico e con le ragazze, al punto che una notte finisce in gattabuia per «molestie sessuali», a suo dire carezze ingenue, con la futura moglie Nancy Barbato.

LA «GANG DEI TOPI»
A molte ore di treno o con le lunghe attese dei pochi voli disponibili, il giovane cantante italiano occhieggia un altro miraggio, nel deserto, Las Vegas. Si parla di gangster, pupe avvenenti, prostitute per gli allocchi, gioco d’azzardo, macchinette con gli spiccioli o fortune perdute al tavolo verde, ma non c’è notte di Las Vegas senza musica. Sinatra è l’uomo per la stagione, crea intorno a sé il Rat Pack, la gang dei topi, i cui membri variano col tempo e gli incessanti pettegolezzi: Humphrey Bogart, Spencer Tracy, David Niven, l’altro italiano che si finge ubriaco ma ha la mente aguzza, Dean Martin, Sammy Davis Jr - irresistibile nelle sue gag: «Handicap? Io sono guercio, nero e ebreo!» -, Peter Lawford, fascinoso attore inglese che sposa una Kennedy e consacra Sinatra nel giro del giovane presidente. Da Las Vegas Sinatra torna con l’aura di «amico dei mafiosi», un po’ pregiudizio antitaliano, un po’ inchieste di giornali, un po’ suo giocare a fare il duro, ma nessuna sentenza lo condannerà mai come complice dei gangster.

CANZONI SENZA TEMPO
L’America cambia, il rock dei ragazzi bianchi, il blues dei neri, i ritmi latini mettono i crooner in giacca attillata e bourbon sul pianoforte in crisi. Non Sinatra: una sola stagione opaca ed è il cinema, con il regista Fred Zinneman, 1953, Da qui all’eternità, a rilanciarlo. Se Frank sembrava il cocco del ceto medio benpensante, repubblicano con Eisenhower, democratico con Kennedy, ecco nel 1955 L’uomo dal braccio d’oro di Preminger, dal romanzo di Algren, scrittore che fece innamorare di sé Simone de Beauvoir, compagna di Sartre, al punto da volersi far seppellire con l’anello avuto in regalo. Sinatra ammalia gli intellettuali impegnati, la pellicola - storia di un drogato in cerca di riscatto - si scontra con la censura, e in Va’ e uccidi del 1962 (ridicolo titolo italiano del bellissimo The Manchurian Candidate) di John Frankenheimer, Sinatra interpreta un soldato che soffre il lavaggio del cervello in Corea e viene trasformato in kamikaze, sceneggiatura che ancora oggi si legge rabbrividendo.

Un Oscar, 21 Grammy, 2 Emmy, la Medaglia del Congresso, quattro mogli, poi sì, ci sono le canzoni, Strangers in the Night, My Way, It Was a Very Good Year, scegliete la vostra prediletta: se ne ho parlato poco è perché Frank compie 100 anni, loro sono senza tempo.