La Seconda Guerra Civile americana sarebbe scoppiata nel luglio 2015, teatri delle operazioni Texas, California, Utah. Il New Mexico si schiera con i ribelli, in Arizona cittadini leali al governo resistono. Putin mobilita i mercenari del gruppo Wagner, reclutati dal consigliere Prigozhyn e lascia affluire armi e miliziani. Scatta la legge marziale, dissidenti repubblicani sono deportati in campi di concentramento. Solo il quotidiano La Stampa si occupò, cinque anni fa, del caso «Jade Helm», Timone di Giada, banale manovra militare di quelle che l’esercito Usa svolge di routine contro il terrorismo. Le autorità militari, per non spargere panico, avevano diffuso avvisi ai cittadini: “Se sentiste, nei giorni delle manovre, esplosioni improvvise, niente paura, usiamo munizioni a salve”. Timone di Giada non era disinformazione, non si trattava di fake news, era un’operazione legale e programmata da tempo. Ma il web non la accettò come tale, con siti e fonti persuasi che si trattasse delle “prove generali del colpo di stato ordito da Obama e Biden”.

“La Gestapo USA è nata. Arresti in massa. Gli Stati sono scelti con strategia precisa, dallo Utah, California e Texas. Certe aree sono dichiarate “ostili”, altre “lealiste” perché la Casa Bianca prepara guerra civile e colpo di stato. Chi resiste sarà perseguitato”. Il sito Infowars di Alex Jones, ora schierato con il presidente Donald Trump, richiamò gli ex soldati a fondare “gruppi di resistenza” contro “la nuova dittatura a stelle e strisce”. Il tenente colonnello Mark Lastoria, portavoce dell’Army Special Operations Command, provò a raffreddare la tensione: “Potete avercela col Presidente. Va bene. Ma noi, le Forze Armate, siamo dalla vostra parte da due secoli. Io porto l’uniforme da 27 anni e sotto una mezza dozzina di presidenti!”. Invano: la foia complottista costrinse il governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, a schierare la Guardia nazionale, con 20.000 uomini, aviazione e carri armati, per “garantire i diritti dei cittadini” contro l’inesistente golpe.

“Timone di Giada” fu dunque ignorato in Italia, in Europa e anche negli Usa, tranne un seminario cui presi parte alla Marine Corps University in Virginia, presto dimenticato dall’opinione pubblica. Chi invece ne prese nota, studiandolo a fondo, furono i maestri del sabotaggio delle nostre democrazie, in patria e all’estero. Seguite il meccanismo: non si tratta di creare a tavolino una menzogna e spargerla per seminare zizzania ma, più semplicemente, di rovesciare con specchi deformanti una banale esercitazione “reale”, rendendola inaccettabile a chi è mosso da odio, paura, diffidenza.

Qui devo fare un passo indietro, chiedendo pazienza al lettore. Da ragazzo, per cinque anni, studiai e poi insegnai Logica matematica, scrivendo una tesi di laurea sul “Concetto di verità nei linguaggi formalizzati”. Quando finii a lavorare come cronista spesso ridevo di me, ex logico condannato a raccontare politica, cronaca, economia e cultura, prive di raziocinio alcuno. Eppure, quando il web, i dati, gli algoritmi, le fake news e il tentativo di contrastarle - vedi il lavoro che il mio team Datalab Luiss conduce nell’Unione Europea con le piattaforme di Soma e Edmo - irruppero nelle nostre vite, d’incanto quei pensatori astrusi, quelle teorie colme di formule e deduzioni, tornarono formidabili a darmi conforto. Bertrand Russell, per esempio, che nel 1956, in piena Guerra Fredda, prende atto della distanza che separa la maestosa “verità” dei filosofi, dalla “verità” che lotta nella brutalità della vita quotidiana, contro brillanti e pingui bugie. 

Scriveva Russell allora: “Non potete dunque dire di credere ai fatti, perché capita che le vostre opinioni siano errate. Potete piuttosto dire di percepire dei fatti, perché le percezioni sono comunque reali, anche quando errate…In realtà noi crediamo a frasi, il che rende il giudizio sulla verità complicato, perché le frasi son vuote…ombre curiose come quando diciamo “Oggi è mercoledi” e invece è martedi”. Russell aveva allora 84 anni, morirà nel 1970 a 91, e scrivendo si immagina che avesse un sussulto, come conciliare la verità perfetta della logica con quelle controverse sulla guerra nucleare? “Una delle difficoltà dello studio della logica -scriveva nello stile eloquente che gli fruttò nel 1950 il premio Nobel per la letteratura- è che si tratta di discipline astratte che si occupano delle cose più astratte immaginabili: eppure non possiamo occuparcene se ci viene a mancare il vivido istinto di quello che è reale. Se non abbiamo un vero istinto per la realtà… siamo trascinati verso robe del tutto fantasiosa”.

Il monito di Russell, non provate a contrastare il falso con un’austera “verità di fatto”, spiega bene il caos di Timone di Giada. Ai miliziani del Texas l’odio politico faceva sfumare “l’istinto per la realtà”, reclutandoli a frotte nell’esercito “della roba fantasiosa”. Così accade per i no vax, per chi crede che la xylella stermini gli ulivi per una trama dei petrolieri o che Covid-19 sia intrigo di Gates, Soros e Xi Jinping. Non basta schierare scienziati, debunker (studiosi capaci di smentire notizie false), esperti, se i due mondi rivali, chi usa l’istinto per la realtà e chi si rifugia nella trincea della fantasia, restano senza reti di comunicazione diretta. Lo sfoggio, screziato di arroganza, dei “fatti”, vedi il povero tenente colonnello Lastoria, omen nomen, gli epidemiologi da talk show o i debunker in camice bianco dei laboratori, non guadagna consensi se non sa “pensare” come chi crede, senza dubbi, alle menzogne.

A questi ricordi filosofici ho ripensato, lavorando sulle cronache della pazza, disperata, campagna elettorale americana 2020, al tempo del presidente repubblicano Donald Trump, dello sfidante democratico Joe Biden e della pandemia coronavirus che, da questa parte dell’Oceano Atlantico, non dà tregua.

A Gettysburg, in Pennsylvania, sul campo sacro alla battaglia che, 157 anni or sono, dal primo al tre di luglio del 1863, durante la Guerra Civile Usa, vide cadere tra gli Unionisti del Nord 3155 ufficiali e soldati, con 5365 dispersi e 14.529 feriti e mutilati, e tra i Confederati del Sud 3903 morti, 5425 dispersi e 18.735 mutilati e feriti, si son dati nel weekend scorso appuntamento miliziani di destra, skinheads, neonazisti, gang paramilitari in armi. Chi arriva con rombanti Harley Davidson, chi in camioncini pick up, il pianale ricolmo di fucili, mitra, M16, Uzi, Kalashnikov, giubbotti antiproiettile in kevlar, elmetti e visori a infrarossi militari. I gruppi si coordinano con radio walkie talkie e su chat Telegram segretate. Obiettivo, sulle zolle insanguinate dagli antenati, difendere i monumenti sudisti che ancora sorgono sull’area che il presidente Lincoln, nello storico discorso del 19 novembre 1863, provò con lungimiranza a dedicare “alla rinascita di libertà di questa nazione, guidata da Dio, perché il governo del popolo, espresso dal popolo, per il popolo, non perisca dalla terra” . Se Lincoln, appena quattro mesi dopo la carneficina fratricida e guerra in corso, si appellava all’unità nazionale, i miliziani raccolti a Gettysburg marciavano per infrangerla. Sul web avevano letto che gli Antifa, gruppi di sinistra contro cui Trump appunta la sua campagna elettorale, si erano dati appuntamento per bruciare la bandiera a stelle e strisce, la Old Glory che dal 1775 garrisce sugli Stati Uniti d’America. Per impedire lo scempio e sbaragliare gli Antifa, il tam tam della rete raccoglie la legione militante, scintillante di cromature delle moto, canne brunite dei fucili, occhiali RayBan a specchio.

Le pattuglie hanno pattugliato la zona, nel brillare dei vessilli e nel flettere dei muscoli da palestra. Solo un dettaglio ci riporta alla nobile riflessione di Bertrand Russell, a prima vista lontana da shotgun a canne mozze e dalle raffinate pistole Beretta M9, d’ordinanza nell’U.S. Army nelle fondine. Perché mai gli Antifa, chiunque davvero si mobiliti dietro questa generica sigla dai contorni incerti, avevano voluto l’adunata a Gettysburg ma quando polizia, intelligence e giornalisti hanno cercato online le prove della manifestazioni anti patriottica nessuno ne ha trovate? Alan Jeffs, il fantomatico leader degli Antifa la cui foto adornava gli appelli, non esiste, il suo volto è rubato a uno sconosciuto innocente online dal portfolio di un fotografo tedesco, la sua identità digitale creata a tavolino. Si tratta di falsi, le “ombre curiose” di Russell, “frasi” che qualche centrale di disinformazione, domestica o internazionale, a bella posta lancia online, certa che i duri di destra avrebbero abboccato.

GETTYSBURG, PA - July 4, 2020: An online threat from the supposed leader of Antifa called for the burning of American flags on the grounds of the Gettysburg National Military Park where militias and other white nationalists assembled to protect the historic grounds in Gettysburg, Pennsylvania on July 4, 2020. (Photo by Andrew Mangum for The Washington Post via Getty Images)

Ecco il nostro nuovo mondo, il Falso genera il Vero, una manifestazione che non esiste ne innesca una vera, esasperando i toni, radicalizzando il paese contro gli ideali di Lincoln, minacciando nuove violenze. Shawn Boburg e Dalton Bennett del quotidiano Washington Post, con pazienza certosina, raccolgono gli indizi, Facebook si affanna a cancellare le pagine false, si scopre che i volti, le voci, i siti che annunciavano i roghi delle bandiere erano tutti fasulli, una quinta sinistra scambiata per realtà. La tecnica è antica, nel suo volume professore Thomas Rid “Active measures, The Secret History of disinformation and political warfare” ricorda come lo spionaggio russo, sotto lo zar e poi sotto il Pcus, la usasse con efficienza nell’intelligence militare GRU, creare un finto complotto, perché amici e nemici lo credano vero, aprendo scontri e reazioni a catena. Conseguenza spesso fatali: al Cimitero di Gettysburg un seminarista e pastore protestante, che aveva sollevato i sospetti dei miliziani, ha rischiato il linciaggio e solo l’intervento della polizia lo ha salvato.

Se il Falso governa il Vero, se eventi posticci inducono reali eventi, come possono i giornalisti, educati a narrare “la realtà” avventurarsi in testimonianze che lasciavano perfino la scuola di Russell incerta? Dittatori, nazionalisti, populisti, i nemici della democrazia ovunque, son certi che il XXI secolo vedrà il declino della libertà e l’avvento degli uomini forti, proprio perché il web, già spacciato da ingenui, gonzi e anime belle come pascolo brado, epurato finalmente dall’informazione di qualità, offre invece riparo alle loro trame. Ma sarà così? A giudicare il mondo dall’estate a Gettysburg, cinque anni dopo l’operazione Timone di Giada, si direbbe di sì. Ma, a contraddire lo scetticismo, giusto nelle ore in cui preparavo queste note, ho partecipato a un seminario delle studiose di Harvard University Costanza Sciubba e Irene Pasquetto al Master di Comunicazione Luiss. Pasquetto Chief-Editor e Sciubba Managing Editor della Harvard Kennedy School Misinformation Review del Centro Shorestein, hanno parlato del “sandwich verità” proposto dal linguista George Lakoff: partire dalla verità, affrontare la menzogna (possibilmente senza darle ulteriore diffusione, come, in buona o cattiva fede che sia, spesso fanno i media italiani), concludere con la verità. Applicata al caso Timone di Giada o alle parate di Gettysburg, la tecnica di Lakoff -illustrata da Giuliana Ricozzi sul periodico digitale Zetaluiss - ci richiede di raccontare il Vero, manovra militare del 2015 e nessun appello Antifa del 2020, esporre la disinformazione, golpe di Obama e Biden nel 2015, corteo per bruciare bandiere Usa nel 2020, concludendo ancora con la verità, nessun colpo di stato, nessun rischio per i vessilli americani.

Qui Sciubba e Pasquetto hanno citato un altro dei protagonisti della mia gioventù di logica formale, il leggendario autore del “Tractatus Logico-philosophicus” Ludwig Wittgenstein. Da giovane certo che solo la logica, con i suoi linguaggi, potesse esprimere il nostro mondo, il suo aforisma apodittico concludeva perentorio “Di ciò di cui non si può parlare occorre tacere”, in maturità Wittgenstein tentò di affrontare senza rigidità la questione, pare convinto da uno scherzo dell’economista italiano Piero Sraffa, suo amico e collega a Cambridge, che lo sfotticchiava chiedendo a quale perfetto mondo logico rinviasse un gesto come quello meridionale del passarsi le dita sotto il mente per intendere “neppure per sogno”. Nelle “Ricerche filosofiche” Wittgenstein sosterrà infatti che il significato di una frase, o perfino di una parola, dipende dal contesto in cui la usiamo: la stessa analisi, letta da progressisti e conservatori, trumpiani e bideniani, genitori che vaccinano i figli e no vax, militanti del movimento Black Lives Matter e difensori dei monumenti Confederati assume significati diversi o opposti.

Ecco dunque delineato il dilemma che ci attende e che la caricatura di dibattito politico in corso in Italia ignora per provincialismo: con acribia e serietà dobbiamo ristabilire per ogni questione il contesto diverso in cui le diverse comunità la inquadrano. Per tanti italiani Cristoforo Colombo è un navigatore coraggioso, per i nativi americani l’avanguardia dell’imperialismo; per i neri i monumenti ai generali confederati restano icona di razzismo, per i bianchi evocano la tradizione militare. Riuscendo a comporre questo percorso dinamico della verità espungeremo in radice il falso, fallendo lasceremo ogni campo libero agli stregoni della menzogna. Confesso: che i miei lontani studi di logica rimbalzassero improvvisamente come indispensabili strumenti per difendere il vero, mi ha commosso e rincuorato. I logici scolastici amavano dire “Ex falso sequitur quodlibet”, dal falso potete fare derivare ogni conseguenza di vostro gusto, il golpe di Obama, i vaccini killer, l’epidemia nata in laboratorio a Wuhan, gli Antifa in trincea: per questo dobbiamo impedire il proliferare di propaganda maligna e reciderne in radice l’influenza iniqua sui “contesti” del nostro mondo.