Gliel’avevo detto che l’infortunio di Neymar era un segnale di Dio, amico mio»: parto da Belo Horizonte verso Rio, dopo lo storico 7 a 1 della Germania al Brasile, ma prima passo a salutare il venditore di galli («anche da combattimento!») del Mercado Central di BH, «Beaga» dicono qui. Giovane, assorto, religioso, mi spiega «Dio ha punito il Brasile per la sua arroganza, i miliardi spesi negli stadi, i politici corrotti, i poveri dimenticati. Sembrava avesse colpito Neymar e invece l’ha salvato, lasciandolo fuori dalla vergogna».  

Amen, verrebbe da rispondere, ma il sermone del venditore di galli attrae altri negozianti, l’uomo delle salsicce, la ragazza della mescita di birra, la studentessa che vende le statuette di creta di Bahia, donne romantiche ad occhi sgranati. Ci sono commenti tecnici «Come diavolo può Scolari convocare Fred e Oscar e non Ronaldinho e Kaka in gran forma? Ora spero ci alleni Tite, l’ex del Corinthians, oppure Gallo»; politici «Dilma pagherà alle elezioni presidenziali d’autunno, vedrà!»; economici «Il boom è venuto da due presidenti non di sinistra, Collor de Mello e Cardoso, Lula ha aperto ai lavoratori, Dilma che fa?»; virili «Ha ragione il vecchio capitano Carlos Alberto, piangevano sempre ‘sti… – e una parolaccia -, all’inno, ai gol, alla fine ha pianto David Luiz al 7 a 1 pure, speriamo si asciughi il naso…». 

 Fuori dal mercato le analisi cominciano all’alba, a Rua Goitacazes i clienti che si attardano al Centro Massaggi Venezia (4 del mattino…) e gli studenti che bevono birra a una piccola libreria – murales dedicati ai filosofi Nietzsche e Foucault, in rigorosa maglia oro e verde - si mischiano, colti, sensuali, brilli: «Siamo un paese dall’identità difficile, ha ragione Gilberto Freyre, l’antropologo, dov’è la comunità brasiliana?», «Diciamo la verità piuttosto ragazzi, a quelli lì mancano le palle».  

 Da Rio e San Paolo rimbalzano analisi disincantate, ciniche, «Non c’è alcuna correlazione storica tra i risultati della Nazionale e le elezioni presidenziali» scrive ponderoso un editorialista del quotidiano La Folha, un modo solenne per dire che 201 milioni di elettori non cambiano idea per un gol e neppure per sette gol, risultato che lo statistico celebre Nate Silver considera «la più grande sorpresa della storia del calcio», altro che Italia 0 Corea 1, 1966. A San Paolo bruciano 29 autobus in un deposito, la coppa era cominciata con gli scontri il giorno dell’inaugurazione, roghi di protesta, finisce con gli autobus in fiamme.  

 La presidente Rousseff deve consolidare il vantaggio, la Coppa l’aveva portata su al 44%, ma la presunzione di trasformare lo sport in tribuna politica la può danneggiare. Ha convocato in Brasile i Brics, le economie emergenti, ma quando arriveranno i leader cinesi, indiani, russi e sud africani non avrà la Coppa, solo imbarazzo. Il Brasile cresce meno del 2%, Dilma rallenta le riforme, a questo ritmo le favelas usciranno dalla povertà quando il Brasile si scorderà del 7 a 1, mai. Uno studente mi spiega «Il protezionismo del presidente Vargas e poi la giunta del generale Medici hanno impoverito il paese e usato del calcio come oppio del popolo.  

 Poi abbiamo aperto le dogane, ma nel calcio siamo chiusi, sogniamo il genio di Neymar, ma neppure Garrincha, Pelè e Ronaldo, da soli battevano la Germania. Non siamo globali, nelle idee e nel calcio». 

L’errore dei potenti - scambiare il football per lo specchio dell’anima - lo ripete la gente in strada, con le lacrime agli occhi, o già sorridendo, nell’infinita, gentile bontà di tanti brasiliani semplici. Con Dio nei canali tv religiosi, con la Filosofia in quelli delle Università, si cercano spiegazioni, Ao Vivo intervista «i cardiopatici dell’ospedale al 7 a 1», uno psicologo offre consigli per «i bambini davanti al trauma» ma il calcio non è specchio, è sport. Allo scrittore Eduardo Galeano con il suo motto «Dimmi come giochi a pallone e ti dirò chi sei» e allo studioso Andreas Campomar col suo monumentale «!Golazo!», storia del football in America Latina da tradurre presto in italiano, sfugge il punto semplice: dov’era la difesa del Brasile su Müller nel primo gol? La fantasia e la foga spingono Maicon, Il Colosso, avanti, dietro il gioco «just in time», produzione in tempo reale da XXI secolo dei tedeschi, segna gol in serie come vendesse Mercedes. 

 Il venditore di galli mi cede infine l’esemplare campione da combattimento che contrattiamo da giorni – questa storia ve la racconterò un’altra volta - e offre come sconto l’ultima saggezza «Gli americani vecchi si ricordano dov’erano quando ammazzarono Kennedy, i giovani dov’erano il giorno del crollo delle Torri Gemelle. Mio padre si ricorda dov’era nel 1950 quando perdemmo con l’Uruguay, i miei figli si ricorderanno dov’erano al momento del 7 a 1 tedesco». Perché - alla fine - la politica e l’economia si aggiusteranno, Dilma o non Dilma, Brics o non Brics, ma i dolori del calcio, quelli non passano mai. Martedì il Brasile sembrava la Corea del Nord, tutti in uniforme con la maglia oro numero 10 di Neymar. Ieri tra BH e Rio non ne ho vista una, in strada o nei negozi.