Alla prima della Scala, salendo un gradino dopo l’altro, a Umberto Eco venne il fiatone e serissimo scandì «Eh, non abbiamo più settant’anni!». Uno spirito fanciullesco, timido, dietro l’aplomb dell’intellettuale famoso. Il nome della rosacelebra proprio il mistero del secondo libro perduto della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia, che il monaco Jorge da Burgos avvelena pur di tenere il mondo nella cupezza e nell’astio livido. La tolleranza, per Eco, era imparare a sorridere.

Umberto Eco era un intellettuale rigoroso, nel suo Come si fa una tesi di laureadel 1977 insegnava ai malmostosi studenti dell’anno di rivolta come si studia, li incitava a essere perfetti anche nelle note a piè di pagina. La sua allegria scanzonata era detestata dalla tradizione conservatrice, avversario più severo Pietro Citati, ma Eco, nell’ultima stagione di vita, si vide affrontare dal populismo unito, la destra non gli perdonò le critiche a Berlusconi, il sottobosco di sinistra le critiche al qualunquismo via web.

Non se ne curava, «ho lavorato a far nascere la cultura online», mi spiegava, «con te e Danco Singer abbiamo fondato Golem, prima rivista online già nel 1996! Ma, insisto, sul web vale il rigore culturale, come in biblioteca». Passò quindi a spiegarmi perché non usare il termine «incunaboli» in un certo racconto, dettava il corsivo al Manifesto al volo, battezzando il segretario del Msi «Giorgio Fucile Almirante» ma, con lo pseudonimo Dedalus, polemizzando anche con Pasolini su aborto e omosessuali. Condivideva con Furio Colombo - il suo amico migliore - il segno zodiacale del Capricorno, ma avevano opposti caratteri. Ho visto i due Capricorni preparare le valigie insieme, ordinatissima quella di Furio, un caos informale quella di Umberto. Ma entrambi insegnavano a lavorare 24 ore al giorno, usando l’esperienza per capire il mondo. Nel 1984 ho seguito Eco in America per il lancio del Nome della rosa, in aereo scriveva freneticamente, erano già gli appunti per Il pendolo di Foucault. Andava alla Columbia University a parlottare con il decano degli architetti Mario Salvadori, grande amico del musicista d’avanguardia Luciano Berio. Mario spiegò a Eco un teorema sul pi greco e il pendolo doppio, da quella scintilla partì il romanzo, «Il nome della rosainvece ho preso a scriverlo perché avevo voglia di uccidere un monaco…».

Eco, Salvadori, Berio, maestri del ’900. Eppure, una Pasqua, per rallegrare mio figlio bambino, Renate, la moglie di Eco studiosa di teatro dei burattini, mise su uno spettacolo con le marionette, Eco a suonare il flauto dolce, suo strumento prediletto, Berio a comporre una sinfonia sul pianoforte giocattolo, Furio e Alice Colombo a interpretare i personaggi della fiaba.

La fama non spense mai questa allegria disincantata. Mi raccontò di avere incontrato un giovane Berlusconi in cerca di consigli per le tv dal grande studioso di mass media, «poi fece il contrario di quel che dicevo e diventò ricco…», ma quando gli chiesi conferma dell’aneddoto a Rai Storia, ghignò: «Leggenda metropolitana». Si rese conto presto che il web è un nido per i complotti, spiegando al Corriere (http://goo.gl/7V0Yhg) che il nichilismo mina il XXI secolo. Ai tempi del primo governo Prodi, 1996, Walter Veltroni sperava che la presidenza della Rai andasse a lui, ma rifiutò con le stesse parole usate per dire di no alla candidatura a sindaco di Milano 1993: «Sono un barone, abituato a sentirmi dire di sì, in politica bisogna accettare troppi no».

Quando Bill Weaver tradusse Il nome della rosa gli disse schietto: «È meglio scritto in inglese che in italiano», e Bill rideva: «Grazie ai diritti ho ricostruito casa!». Appena sbarcava a New York, la sua amica Barbara Jakobson del Moma dava un party. C’erano i designer Massimo e Lella Vignelli, Carlo Di Palma, direttore della fotografia di Antonioni e Woody Allen, i Colombo, a volte il vecchio Stille. Umberto beveva Martini cocktail, «testimonianza di civiltà», accendeva una sigaretta e rauco teneva lezione: «I complotti funzionano così. Sei chiuso in un ingorgo sull’autostrada, tutti imprecano, colpa del ministro, colpa delle riparazioni, colpa dei Tir, ma la “colpa” è di nessuno, solo migliaia di auto in coda. I terroristi sfruttano l’ingorgo mediatico, ma il primo libro sui complotti è l’Iliade, rissa degli dèi, colpa loro mica di achei e troiani! Poi colpa dei cristiani che bruciano Roma, dei cavalieri templari, dei massoni. Ricordi il terrorismo italiano? Si parlava di “Grande Vecchio” perché trentenni inesperti non potevano progettare il rapimento di Moro. Quando li han presi ci siamo accorti che erano trentenni, il Piccolo Giovane aveva messo in crisi la Repubblica. Perché la teoria del complotto nasconde la realtà, non la illumina».