Non è semplice, in un weekend di primavera, con l’India che cambia governo, il Pil sottozero, i Mondiali dietro l’angolo, appassionarsi alla decisione della Federal Communications Commission sulla «neutralità della Rete».  

 Lo capisco, e me ne scuso: ma pensate se, leggendo questo articolo su La Stampa online, scaricando il vostro film del cuore, accanendovi a spedire una mail o verificare i risultati in Borsa, di esser costretti ad attendere con certosina pazienza il materiale richiesto, tra noiosi segnali di pausa, mentre sul divano accanto vostra moglie naviga il web a velocità della luce.  

 La posta in gioco con la scelta della Fcc di ieri, al di là delle proteste di attivisti digitali a Silicon Valley, delle pressioni formidabili dei marchi di telecomunicazione e dei manifesti dettati dai guru, è netta: avremo ancora, come oggi, Internet a una sola corsia, dove tutti viaggiamo allo stesso ritmo, o chi paga una tariffa superiore riceverà trattamento preferenziale e chi si affida al vecchio web sarà lumaca?  

Non si tratta solo di appisolarsi davanti al video, è decisione che separa vincitori e vinti nell’industria della comunicazione e dei contenuti, telefoni, giornali, università, spettacolo, commercio online, software. In una democrazia globale, se i messaggi dei grandi partiti e delle istituzioni centrali hanno velocità superiori a quelli dei gruppi di volontari, se il candidato di opposizione è azzittito dalla Cavalcata delle Valchirie digitali online del governo, addio dibattito. 

 La Fcc, organismo che controlla la comunicazione Usa, apre a un’Internet a due velocità, riservandosi una decisione, rimandando la palla alla Casa Bianca e al Congresso, lanciando un dibattito pubblico di 120 giorni per capire cosa pensa l’opinione pubblica americana ma, in sostanza, non bocciando l’idea che si possa viaggiare online in prima classe con una robusta tariffa. I commissari, 3 contro 2, immaginano quindi possibile la Rete a pedaggio, come un’autostrada. 

 L’industria è divisa, i giganti di Silicon Valley difendono la «neutralità della Rete», tutti i contenuti - salvo quelli di emergenza - viaggiano alla stessa velocità. Questa è la posizione ufficiale del presidente Obama, un po’ amletico sul tema come quasi su tutto, e di molti intellettuali dei college. I grandi del web, da Facebook a Google a Yahoo, insistono sulla «net neutrality», antico miraggio egualitario della rete. Contro si schierano i colossi dell’intrattenimento e dell’informazione via cavo, come Time Warner, che sognano di poter dare ai propri clienti più velocità.  

 Il presidente Fcc Tom Wheeler, sostenitore di Obama, parla di «Rete aperta», ma non stoppa l’idea di accessi privilegiati, infuriando gli attivisti che ne ricordano l’impegno come lobbista dei marchi via cavo, che considerano conflitto di interessi. In poche ore quella che sembra un’arcana diatriba per nerd del computer divide le opinioni. Sul New York Times il tecnologo conservatore David Gelernter - mutilato da un ordigno del terrorista luddista Unabomber - interviene nel dibattito Fcc: è ridicolo, scrive, suggerire che ci sarà una Rete «uguale per tutti, ma per qualcuno più uguale, come le corsie sovietiche a Mosca, che certo Putin rimpiange, dove le limousine dei pezzi grossi del Pcus viaggiavano veloci, ignorando il traffico dei comuni mortali». 

 Per Gelernter non si tratta di difendere una posizione di principio, ma di difendere la Rete aperta e la rivoluzione digitale: «Se decidono i burocrati Fcc e non la politica», la Rete rischia. Prima che il dibattito che rischiava di annoiarvi vi spinga in difesa dell’assoluta neutralità della Rete, ascoltate però fino in fondo il saggio Gelernter: un web sempre uguale a se stesso è utopia che, prima o poi, il mercato regolerà. Si tratta di arrivare all’appuntamento senza la fretta di soli 120 giorni e con un confronto franco tra cittadini, politici, industria. Non considerate dunque più scontata la vecchia, cara Rete di un tempo quando i pionieri si conoscevano da un capo all’altro del mondo. Come in un transatlantico di linea ci saranno infine stive, terza classe e saloni di lusso: occorre però almeno che la rotta non sia quella del Titanic, lungo il mare di iceberg-regole che affondano democrazia e sviluppo.