Nel 1992, il regista David Lynch presentò al Festival di Venezia un suo fosco e controverso film, “Twin Peaks: Fire walk with me”, che riprendeva la straordinaria serie tv con lo stesso titolo, popolare tra il 1990 e il 1991. Nelle scene iniziali della pellicola, gli agenti federali dell’Fbi, Chester Desmond e Sam Stanley, indossando gli impermeabili trench di serie, vengono irrisi, ostacolati e alla fine fatti segno di violenza, da parte della polizia locale, sceriffo e sbirri corrotti. Lynch colse un luogo classico della cultura americana, l’Agente Federale “perbene”, l’azzimato attore Kyle MacLachlan, che incalza l’ancestrale oppressione delle zone arretrate. Da Washington partivano, ai tempi del presidente Kennedy e del suo ministro della Giustizia, il fratello Bob, uomini azzimatissimi per costringere il governatore razzista dell’Alabama, George Wallace, a integrare le scuole; da Washington si muovevano le inchieste contro le assoluzioni facili negli stati del Sud, contro i linciaggi, contro le mafie a New York e Chicago.

La Nemesi è dea classica, che gli antichi immaginavano capace di punire l’arroganza degli umani, ristabilendo la giustizia violata dal potere. E certo Nemesi sta agendo in queste ore, come fosse un personaggio del cerebrale regista Lynch, smuove drammi nella vita degli Stati Uniti. Derek Chauvin, il poliziotto che a Minneapolis, Minnesota, ha ucciso il cittadino afroamericano George Floyd, strangolandolo in diretta video il 25 maggio scorso, è stato condannato per omicidio e, quando il magistrato assegnerà la pena, rischia oltre 30 anni, che passerà in isolamento totale, perché è troppo pericoloso che un ex agente, assassino, entri in contatto con gli altri detenuti.

La notizia è clamorosa, nel 2019 la polizia Usa ha ucciso 457 bianchi, 241 neri e 169 ispanici, l’anno precedente le cifre erano rispettivamente 370, 235 e 158, il Washington Post, che tiene un database ad hoc, stima in circa mille l’anno le vittime delle forze dell’ordine. Eppure, nella storia dello stato di Minneapolis, il Minnesota, Chauvin è solo il secondo poliziotto ad esser condannato e, secondo l’autorevole The Henry A. Wallace Police Crime Database della Bowling Green State University, in Ohio, dal 2015 alla morte di Floyd, appena 5 agenti della polizia locale sono stati condannati per omicidio commesso in servizio, senza poi aver la pena cancellata in appello.

Numeri che parlano anche a chi non si è mai laureato in una Law School, licenza di uccidere per chi colpisce in divisa, una percentuale di vittime afroamericane sproporzionata al loro numero nel paese rispetto ai bianchi. Ecco dunque dove ieri, intrecciando la sceneggiatura noir di Lynch e il mito remoto della Dea Nemesi, forse figlia di Zeus, forse di Oceano, l’America cambia. Il ministro della Giustizia Merrick Garland ha ordinato un’inchiesta sul Dipartimento di Polizia della metropoli di Minneapolis, per accertare se la condotta di Chauvin, che abbiamo conosciuto solo grazie al coraggio dell’adolescente Darnella Frazier, che ha ripreso intrepida i dieci minuti dell’agonia di Floyd al cellulare, sia isolata aberrazione, o se invece pratiche, codici e regole locali, magari in modo tacito, legittimino le violenze. È la rottura dell’omertà istituzionale, lasciare che gli Stati regolino la repressione al loro interno, senza che i Feds ci mettano il naso.

Merrick Garland, perbene, schivo, un po’ nerd, si è laureato in Legge all’Università di Harvard, dove aveva pure studiato al college, venendo scelto dai compagni come valedictorian, per pronunciare il discorso alla cerimonia finale, compito che cade sullo studente migliore. Il leggendario giudice della Corte Suprema William Brennan, paladino di diritti civili e libertà di informazione, lo aveva voluto nel suo ufficio, poi una carriera togata di spicco, prima giudice alla Corte d’Appello di Washington D.C. quindi a capo dello stesso tribunale. Curriculum così spettacolare che il 13 febbraio del 2016, quando muore improvvisamente il giudice arci conservatore della Corte Suprema Antonin “Nino” Scalia, dopo una battuta di caccia alla quaglia, il presidente Barack Obama non ha dubbi e sceglie come suo erede Garland. Coltissimo, equilibrato, non radicale, Garland viene però, a ben otto mesi dalle elezioni, insabbiato da una rivolta settaria dei senatori repubblicani in maggioranza alla Camera Alta che, guidati dal leader Mitch McConnell e in dispregio di ogni tradizione e lealtà istituzionale, lo tengono in sospeso fino alle elezioni di novembre, lasciando la Corte con soli 8 membri e permettendo al presidente repubblicano Donald Trump di nominare il primo dei suoi tre giudici costituzionali, pacchetto unico che ne perpetuerà il nazionalismo per una generazione.

Dal 2016 al 2021, Garland non rompe mai silenzio e aplomb di rito, pur vittima di una ingiustizia livida che non ha precedenti, mai infatti, tra dimissioni o morte di un giudice costituzionale e insediamento del successore, erano passati 293 giorni, record precedente i 125 dei giudice Brandeis, poi però confermato nel lontano 1916. Nemesi deve aver bene individuato Garland, per riserbo e sofferenza, e quando Biden, che da vicepresidente di Obama ne aveva seguito la Via Crucis da vicino, ha dovuto scegliere il suo ministro della Giustizia, non ha avuto dubbi, premiando Garland.

Il secchione di Harvard non si accontenta della pur formidabile sentenza di Minneapolis sul sacrificio di Floyd, ma rivendica il diritto di appurare quanto queste saghe barbariche siano innervate nella selezione e addestramento dei poliziotti. Da vent’anni, dall’11 settembre 2001 con gli attentati alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington, le forze dell’ordine Usa si sono via via militarizzate, arruolando veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan e usando tecniche e pratiche belliche nelle metropoli di casa, con arsenali di armi, armature e munizioni acquistate ai saldi in caserma. Il generale David Petraeus, stratega delle guerre Usa moderne, mi disse una volta: “La ragione per cui chiediamo sempre a voi italiani l’intervento dell’Arma dei Carabinieri nelle missioni internazionali di pace, nei Balcani, in Medio Oriente, Libano, Baghdad e Kabul, è perché sono una polizia militare, non solo soldati. A un posto di blocco, sanno quando parlare, negoziare, quando sparare, mentre ci sono purtroppo commando delle forze speciali che prima sparano poi fan domande…”. 

Metodo e mentalità che han portato alle morti di questi anni, inclusa la quindicenne Ma’Khia Bryant, uccisa a Columbus, Ohio, mercoledì scorso, per aver attaccato due donne con coltello, e a costanti atti di violenza, come lo spray irritante spruzzato sul volto del tenente dell’esercito Caron Nazario, afroamericano in divisa, durante un banale controllo stradale: pistola puntata, il 12 aprile, l’agente Joe Gutierrez, insulta e minaccia Nazario, che ha le mani alzate e resta immobile, colpendolo con i gas Mace. Ora è licenziato e in attesa di processo per violazione di diritti civili. Domenica 11 aprile, invece, a Brooklyn Center, sempre Minnesota, il ventenne afroamericano Daunte Wright viene ucciso dalla poliziotta Kim Potter, da un quarto di secolo in divisa, freddato con un colpo di pistola, mentre la Potter dice di aver voluto solo usare il taser, che immobilizza i fermati con una scarica elettrica, sbagliandosi con l’arma d’ordinanza: arrestata, liberata con 100.000 dollari di cauzione, andrà a giudizio. Non pensate che sia ovvio, è una rivoluzione.

Nomi, vittime, casi, ingiustizie che finivano con una notiziola a piè di pagina e l’archiviazione sicura, senza video o cortei di Black Lives Matter, violenza di sistema non isolata che ora il ministro Garland, giudice mancato della Corte Suprema, vuol cancellare. Vuole smantellare la paura che ha tenuto i passanti, presenti al momento della fine di Floyd, a non intervenire, terrorizzati di fare la sua fine o finire in cella. Darnella Frazier, nella sua toccante testimonianza, ha detto di avere gli incubi e di vergognarsi per non aver fatto di più contro Chauvin, ma chi avrebbe potuto far qualcosa? Chi può opporsi a un potere radicato e che si vanta di avere la Legge dalla sua? 

L’America sta affrontando, con spregiudicato coraggio, fantasmi e paure che l’hanno avvinta per secoli. Biden ha annunciato che sono state somministrate 200 milioni di dosi di vaccino anti-Covid, il ritiro entro l’estate dalla guerra lunga 20 anni a Kabul, il summit sull’ambiente di oggi e domani, con il presidente cinese Xi tra gli invitati in teleconferenza, per ridare a Washington la leadership verde svenduta da Trump. E nel frattempo, vuol ricostruire le infrastrutture derelitte e rilanciare l’economia, iniettando 5000 miliardi nel paese, con due pacchetti di spesa che spaventano gli economisti tradizionalisti alla Lawrence Summers, come il New Deal di F.D. Roosevelt spaventò gli economisti tradizionalisti nel 1933.

A fine mese Biden chiude i primi 100 giorni alla Casa Bianca, tradizionale passaggio di ogni amministrazione. Per i bilanci è presto, e vedremo se e quanto Nemesi lo aiuterà. Di certo, non ha avuto paura di impegnarsi e di rischiare, con l’audacia che troppo spesso manca ai leader europei, troppo burocratici e felpati. Nell’annunciare i programmi di rilancio dell’economia post Covid, nell’affrontare le ingiustizie croniche della nostra società civile, il razzismo, la violenza, la discriminazione contro le donne, vedi il video di Beppe Grillo sulle vittime di stupri, il premier Mario Draghi può meditare sulla trasformazione del pacioso “Uncle Joe”, di cui tanti irridevano bonomia e gaffes. In tempi di emergenza, attendismo e cautela son molto più pericolosi di coraggio e risolutezza.