Donald Trump si conferma maestro della comunicazione social, insulta il «New York Times» con un tweet, «state fallendo» e cancella il meeting con la redazione, poi all’ultimo momento lo convoca e, davanti ai giornalisti della «Signora in Grigio», soprannome dello storico giornale, e all’editore Arthur «Pinch» Sulzberger, appare da «soft Donald», diplomatico, senza insulti.

Niente processo a Hillary Clinton, «ha già sofferto troppo», riflettiamo sugli accordi del clima a Parigi, che aveva giurato di stracciare, e niente più «bancarotta» per il «Times», «ho moltissimo rispetto per voi tutti». Quanto al consigliere demagogo Bannon, Trump nega che sia un fascista, ribadisce di voler lasciare campo libero a Putin in Siria, in cambio di un fronte unito contro Isis, dicendo che non lascerà il suo business, «potrei governare Paese e azienda insieme», sicuro, come il presidente Nixon, «che le azioni del presidente sono legali in sé». Il genero Kushner? «Sarà lui a firmare la pace Israele-Palestina».

La saga frenetica di ieri spiega come Trump governi il dibattito sui nuovi media con più efficacia dei giornalisti tradizionali. Non c’è in lui un’oncia di ideologia, la coerenza gli sta antipatica come le cravatte non sgargianti, incarna il verso di Walt Whitman, «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico». Ad ogni audience dirà quel che conviene quel giorno, consapevole che la memoria, nell’epoca del web, è amnesia. 

La stampa americana è ferma invece al «Watergate», si illude di essere «cane da guardia» di un sistema scomparso, e per mesi bravi reporter ed editorialisti si sono affannati a emulare Woodward e Bernstein, cronisti del Washington Post che nel 1974 costrinsero giusto Nixon alle dimissioni. Quell’anno segna lo zenit di vendite dei giornali Usa, massimo della diffusione e massimo del prestigio sociale coincidono, Hollywood fa interpretare Woodward e Bernstein da Robert Redford e Dustin Hoffman. 

Trump coglie prima dei direttori come il risentimento del XXI secolo, poco lavoro e zero valori condivisi, travolga i media. Chi diffida dei politici, di Wall Street, degli intellettuali, a destra e sinistra, detesta anche l’informazione. Così Trump affida al canale video YouTube il programma per la transizione di governo, con una lettura insolita per lui, ingessato, leggendo al «gobbo», non parlando a braccio. Il risultato è un Trump-Non-Trump, duro nei contenuti, ostile agli accordi commerciali con Asia ed Europa, ma che deve fare i conti con la realtà, niente Muro con il Messico, niente commissione di inchiesta contro la Clinton. Piacerà alla base militante, in coppia con il soft Trump del «Times»? 

In un precedente incontro con manager e direttori di giornali e tv, Donald Trump non aveva mollato invece di un centimetro, accusando le reti Cnn e Nbc di «bugie e pregiudizi» e il «New York Times» di aver fatto campagna per Hillary. Uno dei presenti riassume la prima riunione per La Stampa: «Trump non ha avuto un sorriso. Non c’è in lui soddisfazione per la vittoria, sembra volersi vendicare, punta il dito, intima di smetterla con le menzogne, minaccia, si lamenta perfino per le foto non carine, “Sempre con il doppio mento, perché?”. È stato sgradevole ed aggressivo, molti colleghi hanno lasciato il salone furenti. I giornalisti sono umani, non credo che Trump ci guadagni ad umiliarli. Mettersi contro i media è una cattiva idea. Trump si accorgerà che giornali e tv non sono quelli di una volta, vero, ma scommettere la Casa Bianca su YouTube e Facebook è un azzardo». 

Trump aveva deciso, finalmente, per l’incontro con il «New York Times», sua Nemesi, e cambiato rotta nel pomeriggio, Dottor Jekyll e Mister Hyde come sarà fino al 2020. La sua presidenza chiama la stampa Usa a una nuova cultura e strategia, dismettere pompa e snobismo, affidarsi alla critica politica, non di costume contro Trump, chiuderla subito con il lutto per la sconfitta dei democratici - il direttore del settimanale «New Yorker», David Remnick, ha pubblicato un malinconico colloquio con Obama dopo il voto, in cui è il povero presidente, in pratica, a dover consolare l’afflitto giornalista!  

 

Trump è oggi - lo scrivevamo già prima del voto - un colosso, in casa e nel mondo. Si accorgerà presto però che governare non è giocare con i media, al mattino faccia feroce, la sera cordialità, e la sua squadra, metà estremisti sanguigni, metà burocrati tradizionali, non basterà ad evitargli scelte dolorose. I media dovrebbero rispettare il voto popolare senza faziosità e attendere il focoso presidente alla prova della lunga lena, nel mestiere che ha logorato fuoriclasse della politica come Johnson e Nixon. «Governerò per 8 anni» dice al mattino Capitan Fracassa Trump prima che il Presidente Trump lo azzittisca affabile al «Times», ma a Washington anche solo quattro anni sono eterni.