La tradizione della narrativa americana era ricca di virile stoicismo, generosa capacità di accettare la disfatta dell’esistenza con dignità e identità. «Un uomo può essere distrutto – diceva Hemingway – ma non sconfitto». L’eroe di Per chi suona la campana, Robert Jordan, sa di dover morire ma tende l’ultimo agguato al nemico della guerra di Spagna, confortando i compagni. Ismaele, in Moby Dick, riemerge dal gorgo dopo il naufragio della nave Pequod affondata dal cetaceo killer, a raccontarne la saga. Nick Carraway, narratore del Grande Gatsby, vede il sogno d’amore dell’amico svanire in una piscina insanguinata, ma ne preserva la dolce eleganza davanti alla brutalità del ricco Tom Buchanan. Ancora nel dopoguerra, Sal Paradiso di Sulla Strada di Kerouac, o i protagonisti dei racconti di Cheever, lasciano sempre al lettore la speranza che non tutto sia, o appaia, perduto.  

 Non è più così. In parallelo alla perdita del senso di «speciale destino» degli Stati Uniti in politica e diplomazia, dall’unilateralismo di George W. Bush allo smarrimento strategico di Obama, anche in letteratura il destino americano sembra isolarsi in nichilismo e frustrazione, sgomento davanti a un’Apocalisse che non sa né affrontare, né eludere. 

Per McCarthy è una strada crudele da giudizio universale, per Franzen velenoso chiacchiericcio digitale, per Wallace adolescenza senza esito, per Foer diaspora sociale e familiare di un presente senza futuro o coraggio. In Don DeLillo questo affranto deserto metropolitano di prospettiva e comunità prova a diventare classico, da Rumore bianco del 1985 a L’uomo che cade del 2007. In un’intervista con Tuttolibri nel 2014, DeLillo mi disse di sentirsi «Sciamano delle paure e delle paranoie americane», attonito nella Seconda guerra fredda che viviamo: «Il mondo della Guerra Fredda 1 era meno pericoloso, Usa e Urss… calcolavano la forza reciproca, evitando di affrontarsi. Abbiamo perduto questa bilancia, magari del terrore ma che scongiurava la guerra. Una guerra mondiale ci sembra un’aberrazione, ma mi preoccupa la mancanza di un test chiaro: Obama e Putin non capiscono le rispettive intenzioni, è pericoloso». 

Nella paurosa, nuova, guerra fredda, lo «Sciamano della paranoia» decide di raccontarci in Zero K, suo diciassettesimo romanzo, di un diverso gelo, quello della morte evitata grazie al congelamento artificiale, sogno di tanta fantascienza che per DeLillo diventa il limbo dei nuovi ricchi, di chi prova ad evitare la fine con una «crioterapia» che sospende tempo e mortalità. Ross Lockhart, magnate innamorato della nuova moglie malata di sclerosi multipla, Artis Martineau, decide di lasciarla congelare in un avveniristico centro che, a pagamento, promette di sospenderne l’agonia. Ross annuncia quindi al figlio di prime nozze, lo smarrito e incerto narratore Jeff, di voler seguire la nuova consorte in questo Eden del freddo da laboratorio, tra cellule staminali, loculi surgelati, trapianti di organi. 

Il lettore che ama DeLillo ne ritroverà lo stile algido, mai come in queste pagine l’aggettivo è appropriato, il distacco delle conversazioni, la confusione di esseri umani disintegrati dalla propria comunità, famiglia, città, società, vagabondi in un presente elegante ed orribile. Leggendo Zero K tornavo a pensare al destino di Lucio Magri, il fondatore del gruppo di sinistra comunista del Manifesto che, in perfetta salute e ancora vigoroso, ha scelto di morire nel 2011 in una clinica svizzera dell’eutanasia dei sani, spiegando agli amici di non voler sopravvivere alla moglie scomparsa e di non avere energie a sufficienza per agire in un mondo cui si sentiva ormai estraneo. 

Il laboratorio che DeLillo descrive ricorda, con angoscia, la clinica di Bellinzona dove Magri, ed altre anime disperate, hanno cercato rifugio, terra di nessuno dove Dio è morto, come per il teologo Tillich, ma anche noi umani siamo, se non morti, sospesi in eterno nel nulla, pazienti vacui da Zero K. La perdita di ogni morale in letteratura, la fine della palingenesi, della catarsi, il riscatto caro all’epica e alla tragedia greca, è oggi norma imperante, ogni tentativo di dare significato al nostro soffrire – «immagino Sisifo felice» poteva ancora dire l’esistenzialista Camus – considerato volgare «lieto fine» alla Walt Disney. DeLillo non sfugge alla corsia di questa alienazione, né con l’esuberanza un po’ volgare di Jeff, che si interroga sulla sessualità dei congelati, né con l’illusione di Ross che i soldi ci bastino a navigare in business class anche nell’eternità. Zero K non trasforma la delusione, la sconfitta, l’impotenza in grido di battaglia per un migliore domani, per noi o per chi verrà dopo di noi. 

L’America che Barack Obama si lascia alle spalle, cerebrale, amletica, incapace di egemonia o generosità, di imporsi o convincere, è un’America Zero K. Disperata, come nei versi che il poeta russo Esenin si lasciò dietro prima del suicidio, presago, «Morire non è nuovo sotto il sole, ma più nuovo non è nemmeno vivere».