La decisione della Corte Europea contro il motore di ricerca Google, in favore del «diritto all’oblio», non è ancora censura al web, né «attacco al diritto di parola», come depreca via twitter Jeff Jarvis, docente a New York University.
È però, sia pure in nome di buone intenzioni, un errore che può portare a censure al diritto di parola. 
Accogliendo il ricorso del cittadino spagnolo Mario Costeja Gonzàlez, stufo di veder ricorrere sui siti una vecchia condanna ormai scontata, la Corte obbliga Google e le altre aziende digitali a cancellare i link, riferimenti online, a documenti sgraditi da persone o istituzioni. In apparenza suona buon senso, se una condanna è passata, un errore cancellato, perché restare inchiodati per sempre dal web che nulla dimentica? In realtà, sovrapponendosi alle leggi nazionali – per esempio la francese, rigorosa al punto di sfiorar la censura - la decisione della Corte Europea innesca pericolose derive.

Viviamo in tempi in cui la privacy e il diritto all’identità personale sono a rischio. Lo scandalo dei metadati Nsa controllati dal governo americano, non solo a danno di potenze rivali ma anche di innocenti cittadini, ha indotto giganti del web, da Facebook a Google, a chiedere limiti all’ingerenza dello Stato. In nome di questo diffuso sentimento, e anche di un’inconfessata antipatia verso il predominio Usa su nuovi media e tecnologie, la Corte Europea però alimenta il paradosso, già in evidenza dopo la reazione di Russia, Cina, Brasile ai metadati schedati dalla Casa Bianca. In nome del «web libero da controlli», la Corte pone le premesse per un web dove leader politici, banchieri, industriali, manager possano cancellare – come un tempo a scuola dalla vecchia lavagna nera - le loro malefatte, zac, grazie al diritto all’oblio. Qualcuno obietta, «ma non si eliminano mica il fatto, la condanna, le colpe, solo il link ad essi!», trascurando – ingenuamente o con furbizia - che il «link», canale di collegamento a documenti, testi, rapporti, è oggi la sola «esistenza» di questi documenti. Senza link sono inaccessibili, come libri banditi da librerie e biblioteche.

Per queste ragioni i paladini dei diritti online, Big Brother Watch, Open Rights Group, Wikipedia, il Center for Democracy and Technology, e giornali come Financial Times e Guardian, bocciano la sentenza della Corte Ue. Esagera, come Jarvis, anche il fondatore di Wikipedia Jimmy Wales, quando cita il vecchio adagio tedesco (attribuito erroneamente sul web a Brecht, in realtà forse del pastore Niemoller) «Non protestai quando presero gli ebrei, non ero ebreo, non protestai quando presero i comunisti, non ero comunista… quando presero me non era rimasto nessuno a protestare…»? Forse, ma Wales ci sta dicendo «occhio a star zitti quando la Corte se la prende con Google, domani la censura spacciata da oblio colpirà tutti».