Nei seminari di storia militare si chiede talvolta agli studenti «Perché Giulio Cesare non perdeva mai le staffe?» e, dopo le risposte timide, la risposta spiazzante è «Perché le staffe doppie da cavallo, come le usiamo oggi, non arrivarono in Europa, dall’Asia via forse la Cina, che nel Medioevo. I romani non le conoscevano».

Il gioco nasconde lezioni di tattica, strategia e cultura, senza staffe la lancia pesante, da cavaliere di Re Artù, non poteva usarsi, solo un giavellotto più leggero. E l’arco riuscivano a tenderlo solo i nomadi delle steppe nati a cavallo, gli altri dovevano reggersi almeno con una mano. Da un minuscolo dettaglio tecnico derivano conseguenze cruciali, ma da noi la storia militare non si studia né si approfondisce. Il pacifismo nobile che la seconda guerra mondiale ha radicato ci fa tralasciare il legame guerra-civiltà. Ogni popolo combatte secondo la sua tradizione, gli Stati Uniti del XXI secolo sono divisi tra la tradizionale «American way of war» dell’ex generale Powell, esercito potente che schiaccia il nemico, e la Rma, Revolution in military affairs, che vuole commandos leggeri e ultratecnologici per colpire, con un network d’attacco come a Kabul 2001, gli avversari.

Non sono due diverse teorie militari, sono due opposte culture di società e democrazia, massa e uniformità, contro singoli e diversità.

Per questo mi auguro che il libro dello storico Gastone Breccia I figli di Marte (Mondadori) venga letto da chi vuol capire perché Roma dominò combattendo il mondo conosciuto fino alla frontiera con la Cina, e da chi aspira a capire perché son pericolosi Afghanistan, Iran e Nord Corea, o perché la Cina vara una flotta d’alto mare. Interpretare Roma senza partire dall’esercito è però impossibile, «alle origini di Roma c’è il seme di Marte». Greci e Tebani avevano inventato la falange, i Romani le danno, secondo lo storico Keegan, «articolazioni». Non più un monolite, ma davanti i velites a scompigliare l’avversario, in mezzo hastati eprincipes a reggere l’urto, pronti, in difficoltà, a ricompattarsi dietro i legionari veterani, triari , che con scudi ed esperienza garantivano le prime due schiere. Ai lati la cavalleria. È la formazione militare che trionfa in Asia, Africa, Inghilterra, ma la si comprende solo esaminando la società romana. Il combattente professionista, la lealtà dei centurioni, il generale ambizioso che studia i nemici, le popolazioni colonizzate che, attraverso le armi, diventano cittadini e accettano la cultura.

Nelle guerre antiche, ricorda Breccia, la battaglia era cozzare di scudi tra falangi e furioso mulinare di spade, il corto gladio a Roma, dopo la nuvola di frecce e giavellotti. Quando la mischia cieca mandava in fuga uno dei due schieramenti, allora si moriva, o restava feriti, in massa. Socrate, alla battaglia di Delio del 424 a.C., si salva nella rotta ateniese perché, anziché gettare le armi e isolarsi, le tiene e scappa con un pugno di compagni: i Beoti si accaniscono contro i singoli.

La forza di Roma militare è la coesione della legione, in pace e in guerra, in vittoria e in sconfitta. Breccia ricostruisce la battaglia antica, le formazioni, il lancio di sassi con le fionde, frecce, aste, la cavalleria leggera e la pesante, «i catafratti» in armatura, e l’epilogo, il cozzare dei due fronti a falange. Quando Roma trionfa, nelle Gallie con Cesare, o è travolta, a Canne da Annibale, la legione resta unita. A Canne i legionari sono accerchiati dalla maestria di Annibale - la studiano ancora all’accademia di West Point - che schiera al centro i deboli mercenari delle Baleari e ai lati i veterani cartaginesi. Così quando il fronte arretra, e da convesso si fa concavo, crea una sacca che la cavalleria punica sigilla a morte. I soldati romani, per evitare l’umiliazione del colpo di grazia, si strozzano ingoiando zolle di terra.

Che cosa spingeva, si chiedono gli studiosi Delbruck e Keegan, i Romani alla guerra ogni primavera? Certo la brama di conquista, la gloria, l’onore, ma soprattutto la cultura. «I Romani - scrive Breccia - furono realmente una razza guerriera non solo per come seppero comportarsi sul campo, ma per il modo di concepire il ruolo e il destino dello Stato e dei singoli cittadini in funzione del successo militare…». A Canne cadono in poche ore, secondo Polibio, 70 mila romani, 50 mila secondo Livio. I cittadini dell’Urbe non arrivavano ancora a 500.000, è come se oggi cadessero in battaglia 9 milioni di italiani. Eppure «… dopo Canne il Senato proibì qualsiasi pubblica manifestazione di dolore, e negò i fondi per riscattare i prigionieri catturati da Annibale». Con analoga ferocia, Stalin considerò nemici i 5 milioni di soldati russi catturati dai nazisti, e li perseguitò una volta tornati a casa. Fuori dallo Stato, nessuna salvezza.

Una teoria unificata della guerra romana mancò fino a Flavio Vegezio Renato e al suo Epitoma rei militaris (tradotto da Rizzoli), fantastica enciclopedia militare di un gentiluomo a noi sconosciuto, ma che forse mai combatté e che fra il 379 e il 395 d.C., dopo la sconfitta di Adrianopoli quando ormai la gloria di Roma declinava, provò, su ordine pare di Teodosio il Grande, a conservare la filosofia dei «figli di Marte». È una lettura meravigliosa, che Breccia coniuga per il nostro tempo. Quando descrive le difficoltà dei Romani, agricoltori, a combattere contro i popoli nomadi (analogamente agli Ateniesi contro i Persiani) il dilemma è nitido: per Roma «vincere» significava occupare il territorio nemico piantando le sacre insegne delle legioni, per i nomadi lo spazio perduto non ha valore e si torna a contestarlo in armi. Guerra è cultura: Hitler non capisce che Churchill non si arrenderà nel maggio 1940 anche se Lord Halifax gli spiega che «così conviene all’Impero»; Johnson non capisce che i vietnamiti non si arrenderanno anche se il segretario McNamara, statistiche alla mano, gli spiega che ad Hanoi «conviene» la pace. Roma non comprende che gli Ebrei si faranno massacrare senza dir sì all’imperatore. La guerra asimmetrica si vince solo pensando, contro i Parti o Osama bin Laden.

Da storico assennato, Breccia non fa la morale alla sete di sangue dei Romani, ricordando le stragi dei nostri tempi «civili». Annota che già Plinio il Vecchio aveva deprecato «l’oltraggio al genere umano» dei massacri di Cesare in Gallia e conclude che, con Costantino, perfino il pacifismo «assoluto» del Vangelo venne arruolato sotto i labari di Roma. Una storia che sembra remota ed è invece da homepage dei siti web.