Da oggi il segretario generale dell’OECD Angel Gurría, sarà a Pechino per un periodo di visita ufficiale durante il quale, tra un evento bilaterale e l’altro, presenterà l’Economic Survey 2015 della Cina. Nel 2013 l’istituto parigino prefigurava il sorpasso della Repubblica Popolare sugli Stati Uniti entro il 2016. Il report di quell’anno

identificava però già alcuni grandi rischi per l’economia cinese tra i quali l’inflazione, l’instabilità finanziaria, diseguaglianze di reddito e invecchiamento della popolazione.

Nel 2014 l’espansione cinese era poi già rallentata passando dal 7,7% al 7,4%. Le proiezioni dell’OECD per l’economia del dragone nel 2016 vedono infine una crescita del 6,9% del prodotto interno lordo.

Secondo il dato reso noto dal Financial Times pochi giorni fa, a Gennaio la crescita cinese avrebbe fatto registrare il peggior dato dal 1995 (anni della crisi esclusi): 6,8%.

La crescita a doppia cifra dell’economia cinese potrebbe quindi essere racconto da “c’era una volta” se il dato attuale è dimezzato rispetto al record del 2007 (14,2%). 

Nel discorso letto a quasi tremila deputati del Congresso nazionale del popolo, il leader del Governo Xi Jinping ha chiamato “nuova normalità”, l’obiettivo di una crescita non superiore al 7% per quest’anno. Una “gestione” del trend negativo che viene presentata come una scelta volta a produrre una prosperità moderata.

Secondo alcuni osservatori internazionali tradizionalmente cauti, il declino cinese sarebbe davvero iniziato. Così la pensa per esempio David Shambaugh del Wall Street Journal.

Nonostante alcune riforme fiscali siano state messe in atto, gli obiettivi prefissati dal premier cinese al momento del suo insediamento nel 2012 sono stati tutti mancati. Quello che verrebbe a cadere sarebbe il patto stipulato dal Partito Comunista con il popolo. Patto che scambia la crescita dell’occupazione e il miglioramento delle condizioni di vita con il potere di controllo incondizionato. Il Governo ha promesso che il nuovo target del 7% assicurerà anche nel 2015 nuovi posti di lavoro e una disoccupazione contenuta (4,5%). Dopo la riforma del 2008, secondo l’OECD la Cina è terzanella classifica della legislazione di protezione dei lavoratori. Tuttavia anche su questo fronte la tensione sociale è diventata visibile di recente con lo sciopero degli operai calzaturieri, che ha avuto un eco sufficiente per giungere in occidente.

Se l'indigenza è stata infatti fortemente ridimensionata, le distanze sociali sono aumentate considerevolmente. Uno studio del 2013 della Social Science Research Center dell’Università di Pechino indicava che l’1% più ricco della popolazione deteneva più di un terzo della ricchezza della nazione.  E l’Hurun Research Institute di Shangai ha stimato che nel 2014 il 64% delle persone più ricche intervistate sono emigrate, hanno pensato di farlo.

A fronte di ciò, la Cina ha aumentato la spesa militare del 10% per il 2015, lanciando anche

la sua seconda portaerei destinata alla nuova flotta da guerra.

Un panorama di prospettive che, unito alla programmatica repressione politica e culturale in costante inasprimento dal 2012, condannerebbe il regime di Xi al progressivo declino.

Dal punto di vista meramente economico si tratta però di un declino relativo, mentre a livello assoluto la distanza dai Grandi 7 rimane evidente.

La cina è attrattiva per gli investimenti finanziari e ed è semmai questo aspetto a preoccupare ora gli Stati Uniti. E’ di ieri la notizia che Italia, Francia, Germania hanno seguito il Regno Unito nell’adesione a AIIB, la banca internazionale di investimenti infrastrutturali promossa dalla Cina.

L’AIIB era stata lanciata formalmente da Xi Jinping lo scorso anno, proprio come strumento cardine della strategia d’estensione dell’influenza finanziaria internazionale. della Repubblica.

Non poca l’irritazione da parte USA, secondo il Financial Times. La scelta conferisce infatti un duro colpo agli sforzi messi in campo oltreoceano per tenere i paesi occidentali leader fuori dalla nuova istituzione, potenziale concorrente della Banca Mondiale, il cui quartier generale risiede a Washington.

Sull’onda delle adesioni, anche Australia e Corea del Sud avrebbero fatto sapere che ripenseranno a loro scelta di non aderire a AIIB. Più sicuro invece che ne resti fuori il Giappone, preoccupato dall’ascesa dell’influenza cinese nell’asiatico.

Insomma, declino cinese, fino a un certo punto.