Nel 1989, anno della Caduta del Muro a Berlino e della «Fine della Storia» del filosofo Fukuyama, Donald Trump, allora pittoresco costruttore di Manhattan, lanciò un gioco da tavolo, «Trump The Game», sorta di Monopoli con lo slogan «Non si tratta di vincere o perdere: solo di vincere!». Da presidente Trump conferma l’ingenuo machismo di allora e, mettendo in naftalina anni di consenso politico Usa, sembra attratto dal fascino degli uomini forti.

Leader che possono infischiarsene di media, magistrati indipendenti, segregando l’opposizione in galera, senza noiose elezioni o petulanti intellettuali. È di queste ore l’uscita di Trump, «pronto ad incontrare» il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, apprezzato da «vero duro». Molti osservatori si sono stupiti, giusto prima di Pasqua il presidente aveva mobilitato contro Pyongyang la squadra navale Usa guidata dalla portaerei Carl Vinson, salvo scoprire incrociasse al largo dell’Indonesia, a giorni di navigazione dalle acque coreane. Stupore inutile, Trump - già in campagna elettorale - ha simpatizzato con il ruvido Vladimir Putin, che invitò a frugare nelle mail dei democratici, e ha convocato alla Convenzione repubblicana sceriffi noti per i modi spicci, attori di reality show per «veri uomini», l’ex generale Flynn che guidò i delegati al grido di «Arrestate Hillary!», finendo poi travolto dal caso Russiagate. Ieri il capo della Casa Bianca ha parlato al telefono con Putin. I due presidenti hanno parlato di aree sicure in Siria per alleviare la crisi umanitaria e del dossier nordcoreano. Il Cremlino ha invece fatto sapere che i due leader sono d’accordo a un incontro bilaterale a margine del summit del G20 del 7 e 8 luglio in Germania.

Inviti e telefonate

Nel centinaio di giorni passati a Washington Trump ha avuto modo di elogiare il presidente egiziano Al Sisi - «per me sta facendo un lavoro fantastico!» - malgrado sia routine finire ammazzati in segreto dai miliziani al Cairo, sparire in galera e la sorte del povero ricercatore italiano Regeni sia, per gli egiziani, routine dolorosa. Il primo ministro thailandese Prayuth Chan-ocha, che il «Washington Post» definisce «capo di una giunta militare golpista che arresta dissidenti arbitrariamente», è stato invitato da Trump alla Casa Bianca, dopo una cortese telefonata personale «per discutere i problemi di sicurezza, nella regione e globali».

Perfino il presidente filippino Rodrigo Duterte, accusato dalle organizzazioni umanitarie di avere ordinato l’esecuzione sommaria di centinaia di cittadini, accusati senza processo di narcotraffico, ha avuto il colpo di telefono ad hoc di Trump, che dopo averlo invitato in America, ha esclamato «che bella conversazioni tra amici!».

L’elenco degli autocrati-amici è lungo; al summit Usa-Cina il presidente Xi Jinping non ha ascoltato una sola parola sui diritti umani violati dal suo Paese - che la Clinton prometteva di difendere, se eletta - ma s’è discettato sulla qualità della «torta al cioccolato» confezionata al resort del presidente Mar-a-Lago (le cucine, pochi giorni dopo, sono state multate dall’Ufficio di Igiene per violazioni sanitarie). Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, le cui galere traboccano di oppositori e giornalisti indipendenti, dopo la risicata vittoria al referendum costituzionale che l’Ocse boccia per i vistosi brogli governativi, ha incassato le congratulazioni calorose di Trump. Idillio pragmatico anche con il despota siriano Assad, cui il Segretario di Stato Tillerson concedeva di restare in carica sine die, finché i bambini siriani gassati in diretta tv non hanno persuaso Trump a un estemporaneo lancio di missili che non ha mutato i rapporti di forze nello scacchiere.

Potere e immagine

Trump resta fedele alla piattaforma politica di «America First!» della campagna, non crede come Reagan, Bush padre e figlio e Obama, che l’America debba promuovere un’agenda di diritti umani, preferisce difendere i propri interessi nazionali. Psicologicamente, come confermano le regole del vecchio gioco 1989, Trump ama il braccio di ferro tra due Ego, per trovare, alla fine, l’accordo, dividere le spoglie e accrescere a vicenda Potere e Immagine. La vera chiave di interpretazione dei primi mesi di Trump al potere è l’imprevedibilità: da pro Putin a contro Putin, da pro Assad ad anti Assad. Bombardo la Corea? No, son pronto a incontrare Kim. Il presidente considera questi zig zag irresistibile tattica negoziale, i diplomatici amici e no un rompicapo impossibile, gli uomini forti fiutano l’aria turbolenta e provano a restare in sella, quanto più a lungo possibile.