La battaglia tra i francesi di Napoleone e i prussiani, a Saalfeld, il 10 di ottobre del 1806, è ancora oggi studiata nelle accademie militari per mettere in guardia i cadetti contro il pericolo della temerarietà, buttarsi alla carica contro il nemico, senza bene studiare rapporti di forza, terreno, tattica, avversari. A Saalfeld, infatti, il carismatico principe Luigi Ferdinando di Prussia, aristocratico ufficiale con la passione della musica, comandando l’avanguardia delle truppe alleate ai sassoni, non appena vide l’esercito francese, agli ordini dell’esperto maresciallo Jean Lannes, malgrado avesse il fiume Saal alle spalle, incauta posizione, sferrò la carica, solo per venire circondato e ucciso dal nemico, a soli 34 anni, rifiutando di arrendersi fino all’ultimo. La perdita precoce del principe e dei suoi regalò ai francesi una vittoria strategica.

La morale del campo a Saalfeld è dunque nitida, condensata dallo stratega von Clausewitz nel considerare la disciplina, non l’audacia estrema, vera dote del guerriero. Alla luce di questi esempi, chi è il principe Luigi Ferdinando della crisi italiana? Una decina di giorni fa i media non avevano dubbi, identificando il nostro Luigi Ferdinando in Matteo Renzi che, troppo focoso e ambizioso per rassegnarsi a servire come senatore toscano, alla vista del premier Giuseppe Conte avrebbe lanciato la sua disperata scorreria, per mettere in difficoltà il governo, mosso più da narcisismo cicisbeo che da strategia razionale. I tradizionali avversari dell’ex premier Pd lo hanno lapidato, in Parlamento e sui loro giornali e talk show, ma anche uomini e donne del partito democratico, o commentatori di solito a lui vicini, lo hanno criticato, se non per le obiezioni mosse al macilento Recovery Plan messo a punto dallo staff di Conte, per tempi e modi dell’uscita dal governo.

Da lunedì però i giudizi mutano, in fretta, e confrontare giornali e tv impressiona per la labilità di giudizio. Adesso c’è chi accusa il primo ministro Conte, e il suo team di consiglieri politici e spin doctor, di irruenza, per aver spronato la carica dei “responsabili”, (ricordate i “responsabili”, poi detti per qualche ora vacua “costruttori” in, non richiesto, omaggio al presidente Mattarella?) che avrebbero dovuto, in due mosse da “Regina degli scacchi”, isolare il malaccorto Renzi, silenziare il Pd, compattare la maggioranza, arrivare all’elezione del nuovo presidente e al voto in scadenza naturale. E, magari, con arrocco formidabile, dare vita al Partito del Presidente Conte cui i sondaggi assegnano pingui pacchetti elettorali.

Qualcuno intravede il principe Luigi Ferdinando e il suo impeto sanguigno perfino nello stesso Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 Stelle che, impaziente di liberarsi di Renzi e rafforzare il gabinetto Conte II ha bocciato ogni mediazione pragmatica, o nello staff di consiglieri del segretario Pd Nicola Zingaretti, cauti uomini d’apparato che di solito mal si identificano con gli alamari e gli speroni del troppo audace principe.

La ricerca - così cara agli analisti tradizionali - di chi si è bruciato nelle battute d’esordio della crisi è però vana e non ci porta a comprendere cosa sta accadendo. La politica italiana, dal 2018, segue un percorso nitido e le prossime tappe non dipendono affatto dagli umori di questo o di quel presunto leader, dalla sagacia strategica di un partito o dell’altro, o dalla carenza di sagacia e neppure - Dio ne scampi - dalle furbizie comunicative di influencer avvezzi ai social media. La vicenda è chiara, senza un vincitore assoluto alle elezioni del 2018, due forze che si erano opposte a morte per anni, i 5 Stelle di Grillo e la Lega di Matteo Salvini, si sono unite in un governo centauro, mai coeso, legato solo da spuri elementi, voglia di stare al governo, antipatia per l’Europa, tecnocrazia, élite, in fondo anche l’astio per l’emigrazione. Così figuri antieuropei della Lega, invisi alla vecchia guardia dei Bobo Maroni come all’ala realistica dei Giorgetti, convivevano allegri in tv con i populisti del M5S che fino a poco prima li avevano disprezzati da “kasta” vassalla di “Berluska”. Una corte variopinta di giornalisti, docenti universitari, talk show, intellettuali di destra e sinistra rimpannucciati incensava il Centauro Conte I e il premier, scelto per la sua duttilità flemmatica, spartiva l’agenda con felpata prudenza, la Lega incalzava su decreti sicurezza ed emigrazione, i 5 Stelle “battevano la miseria” con salario universale e navigator, mentre in politica estera, insieme, litigavano con l’Europa e firmavano patti servili con la Cina, ribattezzando il programma neocoloniale Cintura-Strada “Via della Seta”, con tv e giornali amici a disinformare.

Questo assetto deflagrava nell’estate 2019, in un harakiri che non ha molti precedenti, se non la sinistra kamikaze che affossa i governi riformisti di Romano Prodi 1998 e 2008, quando Salvini, Luigi Ferdinando di turno, carica per prendere “pieni poteri” dopo il successo alle Europee e viene disarcionato. Qui la memoria deve tornare, con precisione!, agli eventi. Al quartiere generale del Pd, molti proponevano al segretario Zingaretti la via delle urne, si torni al voto, la destra nazionalista di Salvini e Meloni vincerà, ma ci toglieremo di torno lo spettro di Renzi. L’ex premier compie invece una manovra tattica di cui perfino gli avversari gli daran atto: buttandosi alle spalle anni di insulti, campagna stampa, attacchi personali e alla famiglia, sceglie il governo con i 5 Stelle, pur di riportare l‘Italia in Europa e mettere alle corde la destra. Nasce, a sorpresa e per il disappunto di qualcuno nel Pd, il Conte II, mentre a destra si apre - sotto traccia - un sordo dibattito su Salvini che viene indotto a moderare i toni, in tv i petulanti Chipmunk antieuro fanno meno slot e riappaiono le grisaglie della Lega di governo alla Zaia. Il premier Conte è abile, va detto, a azzerare il ricordo delle nefandezze del suo primo gabinetto, - al processo sull’emigrazione contro Salvini sostiene di non essersi consultato col suo ministro degli Interni - e si ricicla in europeista moderato, progressista affabile, perfino con qualche tocco radical chic, vedi la presenza, seduto in terra come uno studente all’okkupazione al Cinema America, storico simbolo della sinistra romana e nel cordoglio esternato per il ragazzo Willy Duarte, brutalizzato dai bulli a Roma. Gli effetti del Conte II son benefici, l’Italia esce dalla smania di Italexit, ritorna a dialogare con i partner, prova a ragionare in Europa. Alle spalle anche i deliri di grandezza, tipo le giornate palermitane per la pace in Libia, che durano meno di un disegno sulla sabbia del deserto in una notte di simun, anche se il premier non resiste, e il Pd glielo concede con troppa generosità, all’inutile passerella di Stati Generali in cui nulla di serio emerge.

Il nuovo ministro degli Esteri Luigi Di Maio si affida agli esperti ambasciatori della Farnesina, su tutti il veterano Sequi, e sembra avviarsi verso una stagione matura, niente intemperanze, toni pacati, il ministro dell’Economia Gualtieri, uno storico, riprende i fili che, contro ogni previsione, il buon Tria aveva cercato di salvare dalle follie del Conte I, moderati come Guerini rimettono l’Italia nel solco Nato tradizionale. Un anno fa però, a lungo minimizzato da media provinciali, arriva l’epidemia Covid 19. Dapprima l’opinione pubblica si stringe al governo, che fare se no?, e malgrado ritardi, eccessi di cattiva comunicazione, silenzi quando la trasparenza avrebbe fatto buon gioco, Conte II sembra cavarsela. Alla prova dell’estate, la mancanza di fondo della coalizione 5 Stelle-Pd comincia a trapelare. Il premier avrebbe, lo testimoniano i sondaggi, plafond per fare delle scelte forti, imporre il benefico Mes ai recalcitranti 5 Stelle (bastava dir loro “volete le urne e tornare, anonimi, ai vostri lavoretti?”), usare delle tensioni reciproche Renzi-Pd per mediare volta a volta a suo vantaggio. L’Europa gli avrebbe dato una mano, in testa il presidente del Parlamento Sassoli e l’influente Commissario Gentiloni, e presto arrivano i 209 miliardi del Recovery Fund, su 750 totali, Europa generosa, non matrigna. Non perdete di vista l’essenziale, su questo nodo irrisolto cade Giuseppe Conte, e su questo, comunque vada l’avventura del Conte III possibile, la sua statura di leader è ridimensionata di botto. Non si tratta più, infatti, di moderare tra estremi, senza mai entrare nel merito, pattinare con garbo e pochette in vista tra un ringhio di Salvini e il pensatore grillino Pauli, negazionista del Covid, o tra un pensatore Pd filo mercato e uno grillino anti Wall Street perché gli hanno fatto in sunto della Mazzucato. Ora si deve scegliere, Mes si o no, Recovery plan come e quando, non aprire le discoteche a Ferragosto, per il consenso di qualcuno, come se il virus andasse in ferie. Il lettore non sbagli, i 209 miliardi europei, senza i quali, malgrado gli strilli nazionalisti, andremo a fondo, non sono beneficenza o prestito a fondo perduto. Sono un piano di investimenti che chiede all’Italia le riforme che è incapace di implementare dagli anni ’80, giustizia, pubblica amministrazione, sostenibilità, digitale, infrastrutture, welfare, mercato del lavoro. Ma ciascuna voce richiede due virtù che, finora, non sono apparse nel premier, capacità di scegliere e passione. Riformare vuol dire sfrondare privilegi, status quo, farsi dei nemici, puntare su ceti, idee, culture e impone dunque passione per il futuro, il nuovo, qualche passaggio ideale sfrontato. Il chiocchiolio delle conferenze stampa precotte, le immagini in scatola a vantaggio di telecamera, col computer Mac proteso come la prua di una nave oceanica, potevano durare per un po’, ma quando Renzi ha detto l’ovvio, quel che tutti i ministri del Conte II vi dicevano in privato, cioè che il Recovery plan italiano era mal scritto, mal pensato, mal concepito e mai sarebbe passato in Europa, Conte II si è arenato. C’è un suo video che vi suggerisco di riguardare, il premier che si annoda la cravatta senza guardarsi allo specchio, una piega dopo l’altra, evidentemente compiaciuto dalla bravura, credo si tratti di un nodo Windsor, o un Four in Hand. Il gesto raffinato mi sembra iconico della sua avventura politica: cravatta perfetta, Presidente, ma dove andiamo ora così in tiro, al ballo Mes o no, al party Recovery Fund o no? Su questo silenzio.

La settimana scorsa, cravatta scolpita come sempre, il presidente del Consiglio, ma di nuovo si trattava di scegliere, rischiare, strade a lui avverse, bene avrebbe fatto a dimettersi, senza la penosa pantomima della cerca di consensi meschini alla Ciampolillo. Non poteva durare e non è durata. E ora? Ora le urne sembrano lontane, nessuno vuol votare. In tv girano fole, Berlusconi al Quirinale, il partito di Conte (dopo il partito di Dini, di Fini, di Monti…) ma la realtà stringe severa. Il presidente Mattarella vuole numeri in Parlamento, e quelli o ci sono o non ci sono. Conte III potrebbe assicurarseli facendo quel che non ha fatto fin qui, andando da Renzi, Grillo, Zingaretti, Leu, dall’opposizione, con una proposta politica chiara, pronto se sconfessato a dimettersi. Ingoiando qualche rospo, facendo - sarebbe una prima volta - qualche autocritica, guardando il percorso di Di Maio e la sua capacità di maturare, spiegando allo staff, è la politica a comandare, non gli spot. Ne avrebbe ancora la forza, le alternative languono, ma ne ha la capacità? Altrimenti, potrebbe toccare allo stesso Di Maio, a un Pd, il segretario Zingaretti e l’influente ministro Franceschini, o a qualche tecnico, i nomi fateli voi ad eccezione di Mario Draghi che fonti dirette escludono. Senza però che il diktat della redazione di un buon Recovery plan venga meno.

Questa è la morale della bufera italiana 2021, il cui vero esito non è Conte III o governo tecnico, maggioranza Pd-5 Stelle o unità nazionale con Berlusconi e i centristi. Ogni formula è possibile, ma ogni formula arriva poi al passaggio ineludibile: come strutturare l’Italia in pandemia? Leggendo analisti diversi per politiche e formazione, Ferdinando Giugliano di Bloomberg-Repubblica, il veterano Munchau di Eurointelligence-Financial Times, Federico Fubini sul Corriere della Sera, il parlamentare Tommaso Nannicini sul Foglio di Claudio Cerasa, vedrete come investire il prestito dal futuro che ci viene fornito richieda una stanza di progettazione formidabile, una coesione nazionale seria, un’egemonia culturale degli innovatori sui burocrati dello status quo, di cui il premier dovrebbe farsi garante e sprone.

Conte I e II è stato ottimo manager dello status quo, sarà, se reincaricato, manager del rinnovamento? E un tecnico, o una tecnica, un 5 Stelle o un Pd, scagliati a Palazzo Chigi in questo bailamme, ce la farebbero a campare in un parlamento dove gli statisti non sono poi troppi e i tira a campare sono legione?

Le ragioni del pessimismo sono tante, radicate e ben alimentate dalla storia del nostro paese, che non vuole fare i conti con il mondo nuovo. Eppure, mai come in questa tragica pandemia, il pessimismo è il più inutile dei sentimenti. Gli uomini e le donne di buona volontà dovrebbero unirsi per un cambio di stagione vero, anziché farsi ipnotizzare dalla vulgata romana del chi sale e chi scende in Transatlantico, concordare una agenda razionale per il Recovery Fund e un piano di vaccinazione, senza le reticenze e il Tutto Va Ben Madama la Marchesa caro al commissario Arcuri. I ripetuti interventi del commissario Gentiloni, perché si facciano presto e bene le riforme richieste da pandemia e Recovery Fund, devono essere ascoltati, pena la decadenza rapida.

Gran peso hanno invece, in queste ore, antipatie e ripicche personali, vecchie faide e camarille di gruppi di potere e sottopotere, lobby dei media, l’antica, e stremata, sottocultura dello Strapaese che mai sa evolvere: perfino il centenario, tragico e glorioso, del vecchio Partito comunista italiano ha dato luogo, lo ricordava bene il ministro Orlando, a fruste polemiche anziché equanimi bilanci storici. Il presidente Mattarella deve trovare una quadra non facile, il premier Conte dovrebbe sfoggiare toni e modi fin qui nascosti, Renzi dopo avere rotto il ghiaccio deve ripetere l’exploit creativo unitario del ’19, Zingaretti e i saggi del Pd, penso al bell’intervento di Graziano Del Rio in Parlamento, devono mostrare che la sinistra è davvero forza di stabilità europea, magnetizzando anche Leu, se Gianni Letta ritrova un bandolo al centro - Casini ci prova con lena -, Salvini e Meloni dovranno riflettere sull’urgenza del momento, senza sognare un voto remoto, e a Di Maio tocca tenere ancora insieme quel che resta dei 5 Stelle oltre l’agitarsi anacronistico di Di Battista. Chiunque governi deve studiare, studiare, studiare il Recovery plan con acribia e passione che, va detto, Conte II e i suoi ministri non hanno avuto. Quante chance do a un esito positivo? Una scarsa manciata, ma l’alternativa, governicchi Conte, tecnici di scarsa esperienza, elezioni in pandemia mi fanno tanta paura da tralasciarle. Non è in gioco la testa di Giuseppe Conte, ma la nostra, e se per salvare il paese tocca frenare le proprie passioni e collaborare con avversari di ieri, ok: ho molto apprezzato il principe Luigi Ferdinando, per la sua musica, la vita romantica, lo sprezzo del pericolo, ma non seguiamolo in una carica senza arte né parte, per il bene del nostro paese.