Nell’epica indiana Bhagavadgita l’eroe arciere Arjuna è sopraffatto dal dubbio, non vuole combattere con il suo maestro Drona e l’amato Bhishma. Arjuna rinnega il Potere, cerca una dimensione umana che sfugga al destino di competere, vincere, perdere. Il divino Krishna interviene allora con una severa lezione che fa nella storia del nostro mondo il paio con quella dei tragici Greci classici: tra Vita, Destino e Potere è tesa la vostra esistenza ammonisce Arjuna.Su questa dimensione lavora il saggio dell’economista Moise’s Naim La fine del Potere, tradotto ora in italiano da Mondadori (euro 20, pagg. 408): mentre vediamo i poteri sempre più estendersi, farsi magari occulti, Big Data, Big Companies, Big States, Big Ong paradossalmente il loro «potere» effettivo svanisce. Il Congresso Usa e la Casa Bianca non riescono a riprodurre i grandi progetti di un tempo, le autostrade di Eisenhower, i diritti civili di Johnson, l’apertura alla Cina di Nixon. Aziende e banche devono difendersi dalla crisi, dalla concorrenza globale mentre Lillipuziani li assediano, azionisti di minoranza, attivisti, militanti. 

 Si esaurisce già l’effimero movimento Occupy Wall Street ma Bill Clinton stesso disse che aveva fatto di più contro gli eccessi del capitalismo della Casa Bianca. Moises Naim, ex ministro dell’Economia in Venezuela, commentatore per testate europee e americane, studioso al Carnegie Endowment, non argomenta affatto - come qualche critico precipitoso gli ha osservato - che il Potere non esiste più. Al contrario, ne studia la trasformazione in corso. Pensate agli Anni 40 e 50 del secolo scorso. Gran parte del mondo era retta da totalitarismi dove contava spesso una sola persona. Nel mondo religioso il potere centrale era assoluto, su tutti nella Cristianità. In famiglia comandava il padre-marito, in fabbrica il direttore e il capo reparto, a scuola il professore, nell’esercito ufficiali e sergenti. In ospedale il primario parlava, gli altri sanitari ascoltavano, il paziente teneva gli occhi bassi.  

Il Concilio Vaticano II, il 1968, il femminismo, la fine del colonialismo, la crisi fiscale dello Stato, la nascita di nuove identità, sessuali, personali, culturali, frantumano il potere centrale. In una raccolta di saggi Einaudi, Microfisica del potere, il filosofo francese Michel Foucault intravedeva gia’ nel 1977 questa transizione dal Potere-Massa al Potere-Rete. Come la geometria e la matematica sistemi assoluti sognati da Euclide e Hilbert diventano nel Novecento «caos e frattali» con Thom e Mandelbrot, cosi’ anche la società, la politica e l’economia si «frangon». Moises Naim non e’ uno dei moralisti alla moda pronti a raccattare «una paga per il lesso» esaltando, o deprecando, il presente. Le sue migrazioni intellettuali, dall’America Latina al tecnocratico Mit, dall’economia del Venezuela ricco di petrolio e populismo con Chavez e Maduro, la direzione per anni della brillante rivista Foreign Policy, gli hanno insegnato che una dose di pragmatismo aiuta a capire il presente. La fine del potere e’ dunque un libro indispensabile al lettore italiano.  

Perché disintegrato il sistema dei partiti classici, Dc, Pci, Psi, ridotta l’influenza di imprese e economia - chi oggi detiene in Italia l’influenza dell’avvocato Agnelli? -, in difficoltà i media - dove sono Montanelli, Pintor, Stille? - con intellettuali ridotti perfino alla corte di Grillo, ci trasciniamo in una Batracomiomachia di tutti contro tutti. Le livree si azzuffano, nessuno ha un progetto. Moise’s Naim coglie il positivo del nuovo mondo, la mobilita’, l’indipendenza, la voglia di sfidare il potere sul controllo dal centro, ma ne ricorda con saggezza i gorghi, il populismo, il disordine, la perdita di valori condivisi, che sfociano infine per reazione in maggiore controllo centrale, a Pechino, Mosca e Washington. L’ex presidente americano Bill Clinton invita a leggere La fine del potere e ha ragione, perché e’ uno dei primi libri a raccontare il ritmo del nuovo secolo e come tale sara’ ricordato.