Al Predio, ritiro della Nazionale argentina a Buenos Aires, prati in periferia sorvolati dai jet del vicino aeroporto Ezeiza, nella hall di ingresso allo spogliatoio una maglia domina sulle altre dei veterani, il 10 di Diego Armando Maradona. Quella di Lionel Messi è più in là, meno in vista, isolata. Maradona ha il volto ribelle del Che Guevara tatuato sul braccio, ma nessuno ricorda che Messi è nato al numero 525 Estado de Israele, Rosario, pochi passi dalla casa natale del Che. Durante gli allenamenti al Napoli Diego faceva la foca palleggiando arance per stupire i reporter, ma da bambino Lionel aveva un patto con il suo primo allenatore, Carlos Marconi, un dolcino alfajore per ogni gol segnato, e quando Marconi raddoppia «Due alfajores per i gol di testa» il piccolo Messi scarta cinque stupiti coetanei, scarta il portiere, alza la palla col sinistro a porta vuota e segna di testa, incassando doppio dolcetto. 

Oggi allo Stadio Maracanã, nella Finale della Coppa Mondiale 2014, nella più importante partita della sua carriera, Lionel Messi, 26 anni di cui la metà passati da professionista, non dovrà solo temere il formidabile portiere tedesco Neuer e la sua difesa Wunderbar. La Germania è più squadra dell’Argentina, gasata ora dal 7 a 1 al Brasile, ma prevedibile nella sua perfezione. Nella sua imperfezione – il codice genetico imperfetto va elogiato, diceva la Nobel Montalcini – l’Argentina è imprevedibile, specie con Di Maria in campo e Mascherano a gridare feroce «huevos», fuori le palle, pur minimizzando nel prepartita «Non sono mica Rambo». 

 Se Messi non illumina, come ha fatto con il gol e l’assist a Di Maria risolvendo match incartati, la festa che i tedeschi hanno convocato per il 15 luglio alla storica Porta di Brandenburgo a Berlino, eredi razionali di Hegel incuranti del malocchio, può cominciare. E in queste ore di solitaria meditazione per il taciturno Lionel, il fantasma non sono i tedeschi, è Diego. Perché nella sua selvaggia, dionisiaca, autodistruttiva foga, Maradona giocava come esistessero solo lui e la palla e gli avversari fossero birilli da scartare e irridere, magari vantandosi di aver cancellato con i gol agli inglesi l’umiliazione argentina alla guerra delle Falklands. Quando guarderete stasera Messi, la sua accelerazione da fermo, il tocco laser di sinistro, gli assist wi-fi, ricordate che gioca con il fantasma di Diego appollaiato sulle spalle esili. 

 I tifosi argentini irridono i brasiliani cantando che «Maradona è meglio di Pelé» (siete d’accordo?), ma alla Coppa America 2011 fischiarono apertamente Messi, disprezzato come «spagnolo», «mercenario», per aver vissuto a Barcellona da quando aveva 13 anni. Un giro nel torrido web di Buenos Aires conferma che se Messi non è amato, Diego è idolatrato e un compagno dell’albiceleste mormora «Lionel ha spesso pensato di lasciare la Nazionale, troppi insulti e diffidenza. Ha cambiato idea dopo il 4 a 3 al Brasile, ma resta teso». 

Oggi Lionel deve giocare come se Diego Armando e la sua Mano di Dio non incombessero, dimenticare la petulante, eccessiva, onnivora «Dimensione Maradona» in campo e fuori, le donne, i processi, la droga, le paparazzate, l’opposto dello stile di vita schivo di Messi. Maradona giocava per provare la forza del genio di Maradona, narciso incurante, guardate il gol a tocchi precisi in finale contro la Germania, oltre alla celebre corsa 1986 contro l’Inghilterra. Messi gioca per provare ai suoi diffidenti compatrioti («Unite i difetti degli italiani a quelli degli inglesi e avrete un argentino» ridono a Rio) di essere ancora uno di loro. L’ex capitano dell’Argentina, e amico di Messi, Javier Zanetti lo conforta «Lionel non ha nulla da provare, Mondiale o non Mondiale. La sua vita da campione lo pone già ai vertici, con Pelé e Maradona», ma la curva argentina al Maracanã sarà meno gentile. Messi ha segnato più gol di Maradona e, prima della fine carriera, lo lascerà molto indietro. La critica ne apprezza passo, schemi, strategia, ma gli manca il gesto, l’icona, il momento del pathos indimenticabile. L’appuntamento della vita è al Maracanã, ore 16 di Rio. Gli basta giocare come ai tempi del vecchio Marconi, come se ci fossero in palio due dolcetti e non la Coppa, scrollandosi dalle spalle lo stregone Maradona, scartando tutti, alzando la palla di testa e gol.