Ho sempre meditato sulla pagina di "Se questo è un uomo" di Primo Levi in cui il condannato a morte, dalla forca, mentre i nazisti cercano di intimidire i derelitti prigionieri ammassati sul piazzale gelato, ha il coraggio morale di sfidare il nemico con il grido Kameraden, ich bin der Letzte! (Compagni, io sono l'ultimo!).

L'impiccagione serve a terrorizzare ancor di più i deportati, gli Alleati si avvicinano con la libertà ma per loro non deve esserci speranza.

L'uomo, di cui non sappiamo né nome né nazionalità, combatte fino all'estremo.

Con un solo grido, un verso dal valore drammatico, intimidisce i nazisti, che sanno davvero che per loro si avvicina la resa dei conti e la caduta dei malvagi dei a Berlino e incoraggia i fratelli perduti. Levi lamenta che nessuno lo abbia confortato di un gesto di consenso, ma è troppo pessimista.

L'uomo non chiedeva né sostegno, né altre vittime. Voleva, con la forza del vero combattente che sa come la battaglia non si esaurisca con lui, ma vada oltre la sua persona e continui con nobiltà nel tempo e nello spazio, testimoniare contro il Male nella Storia e per il Bene nella Storia, contro le Tenebre dell'Oppressione per la Luce della Tolleranza.

Il suo grido, come Cristo sul Golgota o la Eleonora Fonseca Pimentel sulla forca borbonica a Napoli nel 1799 -Forsan haec olim meminisse iuvabit- ci impegna al futuro, perché davvero ci sia finalmente un Ultimo nella catena dell'uomo contro l'uomo. 27 Gennaio 2015