Alle sei del mattino, dal buio seminterrato che ospita la redazione del canale tv Fox News, azzimato in un cappotto nuovo, esce sul marciapiede di fronte al leggendario teatro Radio City Music Hall, Dick Morris, consigliere repubblicano, guru di Clinton, ora commentatore della rete conservatrice.
È pensieroso, Morris, ha ripetuto tutta notte ai microfoni «Gli elettori han capito bene, il presidente Obama non ha messaggio, né idee e neppure una spiegazione di quel che ha fatto per quattro anni. Romney vincerà le elezioni con 325 voti elettorali, Obama 213». Sui teleschermi della buia newsroom, rossi e blu come bandiere, lampeggiano i veri risultati: 303 Obama, 206 Romney, i 29 punti della Florida, inutili, in attesa.
A chi gli chiede ragione della sconfitta imprevista, Morris risponde con il sorriso di chi le ha viste tutte, «things change», le cose cambiano, e non sa forse che è il titolo di una deliziosa commedia di David Mamet sul corto circuito Potere&Caso. Come Morris, era certa del trionfo di Mitt Romney tutta la vecchia e intelligente guardia repubblicana. In diretta su Fox Karl Rove, l’uomo che portò per due volte alla vittoria G.W. Bush, ha imprecato sull’Ohio ad Obama, come tifoso al rigore negato. Alla Cnn, Peggy Noonan, soave scrittrice dei discorsi migliori di Reagan, «it’s morning in America», si fa giorno America, se la prende un po’ con Romney un po’ col destino. George Will, analista raziocinante dei conservatori, dava il successo a Romney 321 a 217.
Che cosa è successo? E perché sul blog del New York Times, giornale liberal accusato di non avere il polso del paese, il blogger Nate Silver azzecca la previsione in 50 Stati su 50, dopo il già ottimo 49 a 50 del 2008? Per capire perché, dobbiamo tornare a primavera, quando - come conferma una ricostruzione del Wall Street Journal - il consigliere di Barack Obama, Jim Messina, si presenta al presidente e, facendo scattare dal computer una visualizzazione dati (attenti al linguaggio!, non una banale videografica, una visualizzazione dati, realtà che si fa immagini da guardare, Big Data), gli propone una strategia rivoluzionaria. Anziché attendere, come da tradizione, le Convenzioni per poi attaccare il rivale repubblicano, Messina persuade Obama a investire subito ogni risorsa in spot tv che accusino Romney di avere distrutto, alla testa della finanziaria Bain, posti di lavoro. L’idea di indicare Romney come un moderato travestito da estremista per ottenere i voti di destra è invece scartata, grazie all’ex presidente Clinton: «magari la gente crede sia davvero moderato no?».
Mentre Romney non ha soldi per replicare agli attacchi democratici (la legge gli vieta di usare durante le primarie i fondi accantonati per il voto generale) Obama, a rischio di restare con le casse vuote a settembre, ne definisce la figura davanti agli elettori. Benché Romney vinca poi il primo dibattito tv, faccia una buona campagna e sia votato dalla stragrande maggioranza degli elettori bianchi, il blitz di Messina riesce. Tanti elettori vedranno Romney come disegnato da Obama e «il fiuto» degli esperti repubblicani si asciugherà, come il naso di un cane da caccia incimurrito.
Perché Obama e Messina scommettono la Casa Bianca su un azzardo? Per capirlo dobbiamo lasciare Washington e volare a Chicago, dove, in un edificio anonimo, sorge il centro Big Data del presidente. Qui ragazzini computeristi «nerd» e server giganti che ronzano operosi vagliano i dati di milioni di americani, gusti privati, opinioni politiche, idee, opinioni, pregiudizi ed elaborano il messaggio politico a partire dalla loro realtà. Contea per contea, Stato per Stato, i sondaggisti costruiscono poi modelli per vincere, sommando le varie comunità e valutando le scelte di voto. Perfino i 700.000 volontari del 2008 sono intervistati e schedati, uno a uno, per capire cosa funziona e cosa no: Big Data.
Lo stesso lavoro che Jim Messina fa a Washington e i ragazzi dello scantinato a Chicago, occupa a New York le giornate dell’eccentrico matematico Nate Silver, 34 anni, figlio di un politologo e una militante comunista, statistico che s’è fatto le ossa al blog sportivo Baseball Prospectus e ora interpreta sondaggi e Big Data per il New York Times, sul blog www.fivethirtyeight. Irriso dagli analisti tradizionali, «dopo le elezioni sarai disoccupato!», Silver assicura che guardare al voto nazionale è ormai inutile, tanto il Paese è diviso, serve piuttosto fare somme locali dei campioni di comunità. E calcola secchione: la «new coalition» di Obama è composta da giovani, minoranze, laureati, soprattutto donne, dottori di ricerca, città; Romney prevarrà tra gli operai bianchi (tranne che in Ohio grazie al piano auto), tra chi guadagna oltre 50 o 100 mila dollari l’anno, nella comunità finanziaria, tra i laureati maschi, nelle campagne e nei sobborghi. Silver stima, e Messina e i Big Data di Chicago si mobilitano di conseguenza. Dove la «new coalition» non è abbastanza numerosa, Obama parla ai sindacati, dall’Iowa al Wisconsin.
Nell’anticipare la vittoria di Obama, Silver identifica la vera ragione dell’azzardo vincente di Messina. Il presidente è debole, la Camera resta ai repubblicani, i 600 miliardi di tagli di spesa dell’«abisso fiscale» scattano come ghigliottina a Capodanno, mettendo a rischio la ripresa economica. I democratici guadagnano però nella nuova America, votati da 9 afroamericani, 7 ispanici e 6,6 asiatici su 10. Messina conosce, via Chicago, i dati di Silver e scommette che più immigrati andranno al voto, esattamente il 28%. Così è martedì, troppi nuovi cittadini alle urne contro i repubblicani. Negli Stati dove la coalizione multietnica non basta, Virginia, Colorado, Nevada, Florida, Obama fa leva sulla paura di perdere il lavoro, e somma all’80% delle minoranze il 40% dei bianchi: pochi ma bastano, Big Data non mente.
Il National Journal calcola i dati della fragilità del fronte Obama, primo presidente da Andrew Jackson, 1829-1837, a rivincere con una minor percentuale di voto popolare. Nel 2008 i bianchi diedero al repubblicano McCain +12% su Obama, martedì +20% a Romney. Meno bianchi in media han votato il vittorioso Obama dello sconfitto 2004 Kerry. I Big Data di Messina riportano Obama alla Casa Bianca, ma governare nella sfiducia del ceto medio sarà difficile. La riforma sanitaria, ad esempio, piace a 3/5 degli ispanici, 3/4 degli afroamericani ma 3/5 dei bianchi vogliono cancellarla subito.
Romney avrebbe dovuto ascoltare meno gli arguti intellettuali conservatori e - come faceva ai tempi di Bain - masticar numeri. Non basta ai repubblicani vincere un record, 3/5 del voto bianco, per avere la Casa Bianca. Nessun candidato Gop dal 1988 supera il 50,8% del voto popolare, una vasca di consensi che si vuota. Nel 2004, quando i Big Data debuttavano, per tutto il martedì elettorale i sondaggi indicavano Kerry vincente. Vinse Bush, perché l’alacre Rove mobilitò a sorpresa la base cristiano-fondamentalista, che era fuori dal campione. In otto anni il campione e l’informatica si sono raffinati, i Silver son cresciuti, il colpo gobbo di Rove è ormai impossibile. O i repubblicani imparano a riconoscere dai numeri la nuova l’America, parlando alle minoranze etniche senza durezze, alle donne senza confondere aborto e contraccezione, o finiranno nell’angolo come i democratici dal 1968 al 1992.
Nell’alba grigia della sconfitta Morris non perde il sorriso ma medita: ai repubblicani servono nuovi numeri, nuove idee, nuovi leader. Come ad Obama serve nuova capacità di dialogare col Congresso diviso, se non vuol finire presidente vincente e dimezzato. Tutti guardano con reverenza alla nuova macchina della verità, i Big Data, capaci di svelare il Dna politico del Paese a chiunque abbia l’umiltà e l’intelligenza di studiarli. In America oggi, in Italia domani.